Ci sono film che per qualche motivo si aspettano, altri che appena usciti incuriosiscono, altri ancora che si vedono a scatola chiusa. Hannah, appena arrivato in DVD Mustang su distribuzione CG Entertainment, è uno che si posiziona tra quelli da vedere a scatola chiusa sapendo che certamente non si resterà delusi, essenzialmente per due motivi.
Il primo perché la protagonista assoluta della pellicola è Charlotte Rampling che, è bene ricordarlo, nella sua lunga carriera ha lavorato, tanto per citarne solo qualcuno, con registi del calibro di Visconti, Patroni Griffi, Liliana Cavani, Woody Allen, Francois Ozon, Lars Von Trier. L’attrice britannica a settantuno anni ci ha regalato un personaggio che chi ama il cinema non dimenticherà facilmente: è stupefacente come un’attrice possa interpretare così efficacemente la parabola di un’anziana donna che, perse tutte le certezze, sprofonda lentamente nelle mille e mille sfaccettature della vecchiaia, tanto che pur essendo quasi sempre da sola davanti alla telecamera, la sua sembra addirittura un’interpretazione “corale”. Il film, presentato nel 2017 alla 74° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, e non a caso ha vinto la Coppa Volpi proprio per l’interpretazione femminile della Rampling.
Il secondo motivo per cui guardare il film si chiama Andrea Pallaoro, il regista, che ne ha curato la sceneggiatura insieme a Orlando Tirado. Pallaoro è giovane regista italiano che si è formato professionalmente in America e che nel 2013 proprio a Venezia aveva fatto parlare di sé molto bene con la sua opera prima Medeas, proiettato nella categoria Orizzonti. Hannah è il suo secondo lungometraggio e se per qualsiasi altro ragazzo la scelta della Rampling sarebbe stato per paradosso un grosso rischio, lui, al contrario, l’ha supportata con la sua poetica e con la sua tecnica, impreziosendone se possibile la performance.
Hannah è una donna che vive a Bruxelles e che sia avvia alla vecchiaia, passa le sue giornate tra casa, piscina e una scuola di teatro. Il marito va in carcere e per lei comincia l’isolamento, della mente prima che del fisico. Le sue energie mentali si indeboliscono. Con la solitudine cresce anche la consapevolezza del tempo che inesorabilmente è passato e anche la sicurezza fisica comincia a vacillare. Hannah ne coglie i segni con realismo e così quando capisce che non può accudire neanche il suo cane, in un estremo gesto di sofferto altruismo lo dà in adozione ad un’altra famiglia. Le sue visite al marito in carcere sono sempre più sporadiche, intercalate da solitari viaggi in metropolitana dove incrocia personaggi che amplificano e approfondiscono il fossato tra lei, la sua età e la vita che scorre. Le difficoltà relazionali con il figlio e la nuora allargano il suo vuoto. Così, in una sorta di parabola discendente in cui la ragione prevale ancora sulla decadenza fisica, Hannah decide di interrompere le attività che scandivano le sue giornate, lascia la piscina e poi anche la scuola di teatro: una scelta di vita o di non vita, resta il dubbio. Ma comunque una scelta di testa, fatta forse nella paura di perdere consapevolezza ed agire prima che sia la vita o la non vita a scegliere lei.
Detto di Charlotte Rampling, gli altri interpreti sono André Wilms, Luca Avallone, Stéphanie Van Vyve, Fatou Traore, Simon Bisschop, Ambra Mattioli, Jean-Michel Balthazar, Jessica Fanhan e Julien Vargas.
La macchina da presa che segue costantemente Hannah ci consegna una Rampling in assoluto stato di grazia; un’interprete incredibilmente talentuosa e affascinante. Ed è probabilmente anche per questo che i colori che dà al suo personaggio stridono ancora di più con la sua integrità, quasi che la vecchiaia prima ancora nel uno stato del corpo fosse una presenza indefinita che incombe e arriva agli arti solo dopo essere passata attraverso la memoria, il vissuto, la storia, l’anima, la mente. Lo sguardo di Pallaoro è poetico, forse qualche volta un po’ compiaciuto di così tanta sensibilità e abilità tecnica. Ma come non apprezzare tutte le singole inquadrature senza difetti, ineccepibili nella loro estetica. Come fare a non apprezzare scenografie e testi che, semplificando, si potrebbero definire teatrali, ma che sono invece cinema puro grazie anche ad un montaggio probabilmente un po’ “scolastico” ma efficace e sempre scorrevole pur nei tempi dilatati delle azioni. Come fare infine a non apprezzare la gestualità lenta e plastica di Hannah e dei personaggi che le ruotano intorno, i dialoghi, la voce flebile, i rumori di una vita che fa da sottofondo ma che più che disturbare la protagonista e lo stesso spettatore, aumentano il processo amaro di consapevolezza. Quello di Hannah è un mondo dove non ci sono più eventi o frasi memorabili, ma solo gesti e parole che nel loro pudore sono più potenti di vite forse esibite più che vissute. Ma non aspettatevi un finale chiuso o definito. Dove finisce l’uomo continua il tempo. E questo resta ancora un mistero.