“Ho un pensiero originale nella testa…”. Fin dal monologo iniziale, una voce fuori campo su schermo nero, avvertiamo che qualcuno ci vuole portare dentro a un film attraverso la stessa natura dei film. A parlare è infatti Charlie Kaufman, interpretato da Nicolas Cage, che è, allo stesso tempo, il vero sceneggiatore del film che stiamo guardando e che tratta, guarda un po’, di uno sceneggiatore alle prese con l’adattamento di un film. Solo per questo incipit metacinematografico Il Ladro di Orchidee (titolo originale Adaptation) diretto da Spike Jonze (Essere John Malkovich, Lei – Her), dimostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’ineguagliabile originalità di Kaufman. Dopotutto nell’arco di tre anni, dal 1999 al 2002, l’autore newyorkese aveva sfornato tre incredibili script originali uno dopo l’altro: Essere John Malkovich, Human Nature e questo Il Ladro di Orchidee – ora nuovamente disponibile in DVD grazie a CG Entertainment – che forse è il suo lavoro da sceneggiatore più sottovalutato ma al tempo stesso il più maturo e decisamente il più personale.
LA STRATIFICAZIONE NARRATIVA DE IL LADRO DI ORCHIDEE
Basti pensare alla complessa architettura narrativa alla base del film per capire che a questo giro Kaufman (che due anni dopo avrebbe firmato lo straordinario Eternal Sunshine of the Spotless Mind) non mette a disposizione solo la sua scrittura ma in un certo senso la sua stessa mente, le sue paure e le sue ambizioni. La trasfigurazione filmica di se stesso rivela uno sceneggiatore depresso ed ansioso che, pur soffrendo di un terribile “blocco dello scrittore”, accetta dalla sua agente (Tilda Swinton) di adattare per il cinema il romanzo The Orchid Thief di Susan Orleans (Meryl Streep). Tutto questo mentre nella sua vita piomba improvvisamente il fratello gemello Donald (sempre Nicolas Cage) che decide di avvicinarsi anch’esso alla scrittura di film: frequenta una serie di seminari tenuti dal guru della sceneggiatura Robert McKee (Brian Cox) e inizia a cimentarsi nello script di un improbabile thriller psicologico intitolato I tre. Tutto qui? No, perché questo è solo il plot principale, quello più in superficie. In profondità la narrazione si ramifica in sotto-trame che si intrecciano e si completano dando vita a una forma di racconto nel racconto, un mise en abîme in cui ogni storia ne contiene un’altra. C’è la storia della scrittrice Susan Orlean e dei suoi tentativi di scrivere a sua volta un romanzo sul bracconiere di orchidee John Laroche e c’è la storia stessa di Laroche, un ricercatore talmente appassionato di orchidee rare da arrivare al punto di rubarle, scoprendo successivamente che da esse si può estrarre un potente tipo di droga.
CHARLIE KAUFMAN E IL RACCONTO META-TESTUALE
Per la prima volta dunque Charlie Kaufman, nella stesura di uno script, fa a meno di utilizzare elementi sci-fi, surreali o comunque “magici” per alimentare le vicende che racconta. Lo aveva fatto con Essere John Malkovich (ugualmente diretto da Spike Jonze), lo avrebbe fatto in seguito con Se Mi Lasci Ti Cancello. Ne Il Ladro di Orchidee invece sceglie di giocare su un altro campo, ovvero sull’essenza del film stesso. In un saggio molto intelligente su questa pellicola il critico Lucas Hildebrand ha scritto che «i rapporti primari non sono tra le persone ma tra le persone e le loro fantasie e tra gli scrittori e i loro stessi testi». Questo film insomma, pur muovendosi in modo più convenzionale rispetto ad altri impianti letterari di Kaufman, esplode in modo labirintico coinvolgendo lo spettatore in un’esperienza che è soprattutto meta-testuale: un’opera che si nutre di se stessa proprio come fa l’ouroboros, il serpente citato da Charlie in una delle sue tante riflessioni auto-commiserative. Ma nonostante l’intera pellicola sia a tutti gli effetti kaufman-centrica, Jonze è perfetto per restituire la visionarietà dello script e a far emergere gli aspetti più umani e fragili dei vari personaggi. Dall’altra parte Charlie e Donald sono tanto credibili perché interpretati schizofrenicamente da un Nicolas Cage tanto bravo quanto insolitamente confidenziale e vulnerabile.
TRA CINEMA INDIPENDENTE E HOLLYWOOD
Su tutto però è la scrittura di Kaufman che tiene in mano il volante, che decide quando accelerare, svoltare o perfino quando cambiare corsia. Attraverso i tanti flashback è capace di declinare il concetto di “adattamento” in modo diverso a seconda della vicenda che incrociamo. Se Charlie infatti deve adattare il libro di Susan Orlean in uno script per il cinema al tempo stesso prova ad adattarsi ad un rapporto di coppia e confessare i suoi sentimenti all’amica Valerie (Cara Seymour). Ma non solo: la sua inadeguatezza si riflette anche verso l’industria cinematografica hollywoodiana rappresentata dal guru McKee. Quest’ultima è forse la declinazione più visibilmente meta-testuale, perché alimenta una discussione sulla vera natura di una sceneggiatura che poi viene realmente applicata (o disapplicata) a quello che stiamo vedendo: bisogna infrangere le regole classiche come vorrebbe Charlie o seguirle meticolosamente come insegna McKee a Donald? Bisogna inserire voci fuori campo oppure sono il sintomo di una scrittura noiosa? E il deus-ex machina è davvero necessario per un buon finale? Ecco che la competizione un po’ infantile tra Charlie e Donald diventa in realtà la competizione storica tra arte e commercio, creatività e pragmatismo, cinema indipendente e industria hollywoodiana.
ADAPTATION E L’ADATTAMENTO COME NECESSITÀ
Così, mentre nel racconto delle vicende di Laroche vediamo il film come lo racconterebbe Charlie, nel finale Il ladro di orchidee normalizza la propria struttura narrativa e diventa un film come lo racconterebbe Donald (e il guru McKee). Sparisce il labirintico caos mentale del protagonista, la sua voce fuori campo e i tanti flashback che fino a quel punto avevano ritmato quasi l’intera pellicola. Al loro posto subentra una narrazione smaccatamente classica, un vero e proprio thriller in cui compaiono tutti quegli elementi che Charlie si rifiutava categoricamente di inserire nel suo script: inseguimenti mozzafiato, rapimenti, sparatorie e l’immancabile intervento del deus ex machina. Dopotutto in una scena precedente è proprio la lettura del libro della Orlean che mette in guardia Charlie: «ci sono troppe idee e cose e persone, troppe direzioni in cui andare […] la ragione per cui è importante avere una passione per qualcosa è che questa riduce il mondo ad una dimensione più gestibile». Dunque l’adattamento non è più quello del libro in una sceneggiatura ma diventa quello di Charlie nei confronti della propria passione: lo scrivere sceneggiature. Charlie ha bisogno di una “dimensione più gestibile” per chiudere il cerchio e non importa se per questo sia costretto a smentirsi, a piegarsi al fantasma del gemello Donald o a demolire un po’ della propria creatività e immaginazione. Il compromesso è necessario ma non totale: Charlie può permettersi di chiudere la sequenza con la tanto osteggiata voce fuori campo (e al diavolo quello che ne pensa McKee). L’adattamento insomma, anche quando va contro i propri principi, può diventare un modo per far sopravvivere le proprie convinzioni più intime.
Dopotutto la scena di chiusura è ancora più significativa e illuminante: Jonze concentra lo sguardo su un’aiuola di fiori mentre sullo sfondo infuria il traffico stradale della metropoli. I fiori si piegano e si curvano, ma resistono, sopravvivono: in una parola si adattano, così come tutte le forme di vita, anche le più tormentate (anche quella di Charlie), riescono a fare con il mondo che le circonda. Ecco, questa svolta liberatoria impedisce al film di diventare quell’operazione “auto-indulgente, narcisistica, solipsistica” che temeva lo stesso Kaufman e al contrario la rende un manifesto intelligente sui limiti dell’individuo e del suo ego, sul bisogno dell’altro per trasformare se stessi, sull’adattamento al diverso come occasione di crescita e di evoluzione. Forse è per questo che Il Ladro di Orchidee rimane ancora oggi una delle opere più sincere ed umane con la quale il cinema prova a raccontare la propria arte.