Presentata alla Berlinale nella sezione collaterale Perspektive Deutsches Kino (riservata ai giovani autori del cinema tedesco), Thirty (titolo originale Dreissig) è l’opera prima della regista Simona Kostova; il lungometraggio è uno dei 14 titoli selezionati per il concorso internazionale del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2019.
UN GRUPPO DI TRENTENNI BERLINESI ALLA RICERCA DELLA PROPRIA STRADA NELLA VITA
Nella periferia di Berlino, precisamente a Neukölln, un gruppo di amici si ritrova per il trentesimo compleanno di uno di loro: Övünç (Övünç Güvenisik) è uno scrittore di discreto successo che però si ritrova alle prese con un blocco creativo; Pascal (Pascal Houdus), nonostante i successi lavorativi, sogna una vita diversa in un altro paese. Raha (Raha Emami Khansari) è in crisi dopo la fine della sua storia con Pascal mentre Kara (Kara Schröder) riempie le sue giornate parlando dei problemi degli altri per non dover affrontare i suoi. Infine Henner (Henner Borchers), apparentemente il più spensierato del gruppo, dopo una spiacevole sensazione di terrore durante i festeggiamenti cade quasi in uno stato di trance.
UN’OPERA PRIMA IMPERFETTA ED AMBIZIOSA CAPACE DI CREARE EMPATIA
La regista di origini balcaniche Simona Kostova fa il suo esordio con un lungometraggio creativo e intenso, in bilico tra due mondi in trasformazione. Thirty si concentra infatti su due grandi tematiche accomunate dallo stesso stato di crisi: il mondo della periferia, in questo caso quella di Berlino, in continua trasformazione ad una velocità ormai difficile da tenere sotto controllo (inevitabilmente legata ad un passato più lento e statico) e il mondo della generazione dei trentenni, giovani non più giovani che guardano inermi e con terrore il futuro incerto e un vuoto esistenziale che sembra non dare scampo.
Il lungometraggio si sviluppa lungo le 24 ore del giorno del compleanno di Övünç: i personaggi sembrano non avere background, non sappiamo nulla del loro passato; l’indagine della Kostova si concentra unicamente sul presente. Nonostante ciò, la caratterizzazione dei protagonisti è tutto fuorché incompleta. Grazie ad una regia attenta e studiata nei minimi particolari, il pubblico viene a conoscenza di quel tanto che basta per instaurare un legame con i ragazzi del film. Lo spettatore, soprattutto quello anagraficamente più vicino al gruppo, si riconosce facilmente nel racconto empatico di Thirty. Non si tratta infatti di una pellicola che si basa su una diegesi solida in grado di seguire le classiche regole del racconto cronologico: è semmai una esplorazione psicologica che supera i confini della periferia di Berlino, per permettere a chiunque di poter comprendere gli stati d’animo di Övünç e dei suoi amici.
La macchina da presa qui svolge un ruolo fondamentale perché non si preoccupa di restare invisibile secondo le regole del cinema classico. Anzi, si intromette vistosamente anche nei momenti più intimi e spia con perturbante voyeurismo anche le azioni ai margini dello sguardo del pubblico, che viene coinvolto quasi come se fosse un membro del gruppo condividendo le gioie e le paure dei ragazzi. La regista, a dispetto di un budget ridotto, compensa i mezzi limitati con talento e sensibilità: la cura dei dettagli dell’inquadratura, l’attenzione ai movimenti di macchina durante i piani sequenza e lo studio delle luci durante le sequenze nei club fanno di Thirty un film a tutti gli effetti ambizioso.
La sceneggiatura opera in maniera simbiotica con la regia: all’inizio i dialoghi sono più ricchi, in modo da riempire quelle inquadrature che si concentrano su ampi spazi interni in cui la macchina da presa rimane statica (privilegiando la riflessione e l’osservazione). Solo in un secondo momento, quando il gruppo si sposta all’interno della periferia passando da un luogo affollato all’altro, la telecamera si muove per inseguire i protagonisti, mentre i dialoghi si riducono sempre di più (i primissimi piani raccontano molto più delle parole i sentimenti degli amici).
C’è però un grande rammarico: nei momenti di maggior valore metaforico, dialoghi banali e didascalici tolgono la magia creata dall’immagine. La consegna del regalo a Övünç (una serie di scatole vuote), così come la scena del club tra Pascal e una sconosciuta (che vorrebbe farci riflettere sulla solitudine), esplicano in maniera fin troppo evidente gli spettri contro cui i protagonisti combattono. In questo modo la Kostova ha negato a chi guarda il gusto dell’indagine, anche se la riuscita scena finale, consolatoria ma non per questo banale, rimette tutto in ordine.
Thirty rimane comunque un esordio importante per Simona Kostova, che è riuscita a raccontare con eleganza e trasporto due universi legati indissolubilmente; scavando nelle emozioni dei sei personaggi, l’autrice ha portato alla luce un microcosmo capace di allargarsi a macchia d’olio nella coscienza dello spettatore.