Tra i film in concorso del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2019 Eternal Winter merita un’attenzione particolare: opera seconda dell’autore ungherese classe 1972 Attila Szàsz, la pellicola mette in scena un lato della Seconda Guerra Mondiale sconosciuto al grande pubblico.
LA NASCITA DI UNA LOVE STORY IN UN CAMPO DI LAVORO FORZATO
Durante il Natale del 1944, le truppe sovietiche invadono l’Ungheria e, da un piccolo villaggio, prelevano ogni donna di origine tedesca. La metà è destinata in un campo di lavoro forzato sovietico, dove saranno costrette a lavorare nelle miniere di carbone in condizioni disumane. Anche Irén (Marina Gera) si ritrova in quel treno, lasciando dietro di sé una figlia piccola ad attenderla. Nel bel mezzo del gelido inverno sovietico cerca di sopravvivere solo per rivederla grazie anche a Rajmund (Sàndor Csànyi), un prigioniero estremamente scaltro in grado di usufruire di particolari favori grazie ad un segreto spaccio di sigarette che gli permette di vivere una vita meno complicata all’interno del campo. Nonostante il terrore della guerra e soprattutto della malvagità del governo stalinista dopo la caduta di Berlino, una piccola speranza nel cuore di Irén fa nascere l’amore tra i due.
LA TRAGEDIA DELLA VENDETTA SOVIETICA IN UN FILM INTENSO
Il regista Attila Szàsz con Eternal Winter tocca un argomento troppo poco esplorato ovvero parlare delle 700.000 vittime ungheresi nei campi di concentramento sovietici. Il lungometraggio decide di affrontare una tematica tanto complessa con la delicatezza che solo una storia d’amore può avere; nonostante ciò il film non rinuncia alla drammaticità (che qui per fortuna non sfocia nel melodramma). A cavallo tra ricostruzione storica e racconto privato, Szàsz mette in scena la tremenda vendetta dell’esercito sovietico con uno sguardo duro e gelido che non vuole lasciare spazio all’immaginazione. Come molti film europei sulla Seconda Guerra Mondiale, anche Eternal Winter analizza in maniera profonda le pagine di un periodo storico crudo.
Sullo sfondo di numerose storie private, quella di Irén su tutte, Szàsz concentra la sua regia sul metaforico paesaggio che c’è attorno ai personaggi: una fotografia dai toni caldi è praticamente assente nel film, ad eccezione di poche scene che raccontano l’avvicinamento tra i due protagonisti e la nascita del loro amore. Neve, ghiaccio, indumenti sporchi e scuri caratterizzano il lungometraggio del cineasta ungherese, con un’ambientazione talmente persistente da divenire alienante e completamente estranea a tutto ciò che di umano resta in quel periodo storico, uno specchio fedele di ciò che è richiesto ai prigionieri per resistere. Il prezzo della sopravvivenza, come Rajmund cerca invano di insegnare a Irén, è l’abbandono totale di ogni senso umano: il passato, i sogni e i ricordi sono solo dei massi pesanti che fanno sprofondare. Rinunciare a tutto questo significherebbe, al contrario, trovare quella spinta per vivere un futuro tutto da creare, anche se si tratta di una libertà viziata dall’egoismo. Il regista, con Eternal Winter, parla dell’urgenza di umanità di cui il mondo ha necessariamente bisogno.
Per quanto riguarda invece il tema della mancanza di una precisa identità nazionale in alcuni stati europei alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Szàsz, con grande rammarico, non affronta la spinosa questione in maniera approfondita ma la inserisce come pretesto narrativo per giungere al finale anche se, probabilmente, il suo obiettivo è quello di sorpassare i confini territoriali ungheresi per raccontare non solo le conseguenze visibili di una guerra ma anche (e soprattutto) le reazioni dell’animo umano.
Il thriller storico si intreccia col dramma privato, rinunciando ai ritmi sostenuti in favore di una presa emotiva in grado di coinvolgere lo spettatore. Eternal Winter rende giustizia a quelle voci, che per troppo tempo non sono state ascoltate, con un racconto che raramente cede al didascalismo, capace di entrare nelle ossa come l’inverno sovietico.