Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta da quell’11 novembre 2011 in cui il primo episodio di Game of Thrones andò in onda in Italia. La saga de Il Trono di Spade era già un caso editoriale, ma l’impatto avuto sino a quel momento dalla più celebre creatura letteraria di George R. R. Martin era solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che sarebbe diventato di massa. In 9 anni la serie TV prodotta da HBO e da noi distribuita da Sky Atlantic, pur con alti e bassi, ha portato sul piccolo schermo un’ambizione spettacolare che era propria solo dei film per il cinema, ci ha fatto innamorare delle performance di straordinari attori che proprio grazie allo show hanno raggiunto la vera notorietà, ha anticipato un tono crudo e adulto che abbiamo poi ritrovato anche nei prima inediti blockbuster rated-r e, nei suoi momenti migliori, ha saputo reggere il confronto con le più alte pagine della serialità televisiva. In poche parole Game of Thrones è stato uno spartiacque che per molti versi ha segnato un prima e un dopo – e non a caso fin qui ha vinto ben 314 premi internazionali su 505 candidature.
LA FINE DEL TRONO DI SPADE È INIZIATA DALLA SESTA STAGIONE
Nonostante sia già in lavorazione un numero ancora non ufficializzato di serie spin-off e prequel ambientate con una certa libertà nell’universo creato da Martin (di una delle quali sono già iniziate le riprese), HBO ha dovuto premere l’acceleratore sulla chiusura de Il Trono di Spade non solo per la crescente difficoltà di far collimare le agende di un cast sempre più lanciato, ma soprattutto per la volontà degli showrunner David Benioff e D. B. Weiss di lasciarsi alle spalle lo show che ormai non aveva nemmeno più materiale letterario da adattare.
Durante la sua evoluzione infatti Il Trono di Spade si è dovuto allontanare dalla storia raccontata nei cinque libri già editi, che al termine della sesta stagione erano stati raggiunti senza che Martin fosse lontanamente pronto a pubblicare l’annunciato The Winds of Winter, sesto volume dei sette inizialmente programmati per la saga nota come Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. È stato proprio in quel momento che i due sceneggiatori, costretti a inventare (quasi) di sana pianta il futuro di quei personaggi tanto amati dal pubblico, hanno annunciato di voler chiudere la serie nello spazio di due stagioni. Era il giugno del 2016, e i fan di tutto il mondo scoprivano che della loro serie preferita rimanevano solo una manciata di puntate da vedere.
GLI SHOWRUNNER BENIOFF E WEISS HANNO INIZIATO TROPPO PRESTO A LAVORARE AD ALTRI PROGETTI (COMPRESO STAR WARS)
Se infatti i precedenti cicli della serie erano caratterizzati da una durata di 10 episodi ciascuno, per la penultima e ultima stagione gli showrunner – anche per sfruttare al meglio il budget alto ma non vertiginoso messo sul tavolo da HBO – avevano previsto rispettivamente 7 e 6 episodi. Tredici episodi in due stagioni. Pochi, troppo pochi per riuscire a rendere giustizia alla mole di materiale che si trovavano in mano; eppure a nulla era servita l’insistenza del network per prolungare l’ingaggio: Benioff e Weiss volevano chiudere presto, salutando la loro creatura più celebre quando era ancora all’apice del successo. Trovatisi a dover scrivere da zero al posto di Martin e a dover tirare i remi in barca in un tempo irragionevolmente breve, i due hanno così finito per essere schiavi dei limiti che si sono imposti da soli.
Viene quasi da pensare che, senza più George R. R. Martin a fare da ‘motore immoto’, gli showrunner si siano sentiti legittimati a scrollarsi di dosso un brand che ormai definiva in modo forse troppo ingombrante la loro carriera. Mentre veniva filmata la penultima stagione di Game of Thrones infatti i due già guardavano oltre: scrivevano una nuova serie ucronica da proporre a HBO, Confederate, nella quale immaginavano un presente alternativo in cui la schiavitù in America non era mai stata abolita. Prima ancora delle riprese dell’ottava stagione, invece, Benioff si dedicava da solo al rimaneggiamento di Gemini Man, uno script del 1997 di Darren Lemke che diventerà il prossimo film di Ang Lee, mentre il tandem creativo era già al lavoro sulle prime ipotesi legate a quella che sarebbe poi stata annunciata ufficialmente a febbraio 2018 come la nuova trilogia di Star Wars, la cui produzione inizierà a brevissimo.
Game of Thrones era archiviato già da tempo nella loro mente, e per chiudere un affresco corale senza precedenti e con un’infinità di linee narrative parallele, non potevano che abbandonare quei chiaroscuri che tanto avevano caratterizzato la serie e iniziare a tagliare la storia con l’accetta, rinunciando alla fondamentale dimensione del viaggio che era connaturata nello show e spingendosi ai limiti del teletrasporto; imprimendo svolte repentine agli archi narrativi, a volte pilotandoli con forzature estreme, e a tratti indulgendo addirittura al fan service.
LA STAGIONE FINALE DI GAME OF THRONES HA ANCHE REGALATO GRANDI MOMENTI, MA HA TROPPO SPESSO TRADITO IL PASSATO
SEGUONO SPOILER SULLE PUNTATE 8×03 e 8×05, MA NON SULLA 8×06
È così che arriviamo all’ottava e ultima stagione di Game of Thrones, che in Italia ha portato ascolti mai visti nella fascia oraria delle 3 di notte e che in tutto il mondo ha collezionato tanto il record del pubblico più ampio quanto quello del gradimento più basso (il tomatometer parla chiaro).
A prescindere da come il fandom abbia accolto le svolte più inaspettate dello script (la demenziale petizione per rifare l’intera stagione ha collezionato oltre un milione di adesioni), va detto che la scrittura sbrigativa che già aveva caratterizzato il ciclo precedente diventa qui astrazione pura, con personaggi cui non viene dato spazio per sviluppare motivazioni credibili, con una moltitudine di nessi logici lasciati sul pavimento della editing room e, in generale, con un incedere automatico che non rende giustizia al grande lavoro degli anni passati e in cui sembra che tutto sia pilotato dalla mano (nemmeno tanto) invisibile di due autori cui non è rimasto che sbrigarsi a uccidere un po’ tutti.
Ciò non significa che Il Trono di Spade sia diventata all’improvviso un disastro, anzi: non mancano momenti straordinari, tanto a livello di allestimento scenico che di forza emotiva. In particolare la battaglia contro gli Estranei di La Lunga Notte è tra le più belle battaglie mai viste sul grande e piccolo schermo (nonostante i vergognosi artefatti di compressione che hanno penalizzato la resa a schermo di una fotografia tanto buia quanto potente), la carneficina fatta da Daenerys in Le Campane arriva in modo decisamente troppo repentino e immotivato ma rappresenta anche una scelta di scrittura estremamente coraggiosa e significativa, il personaggio di Arya risulta simbolico e potente (anche la sua ‘fuga’ da Approdo del Re, per forzata che sia, rimane comunque fedele al motto del «non oggi») e le ultime battute di Tyrion, per ciò che pronuncia e il contesto nel quale lo pronuncia, sono la quintessenza del personaggio.
Sono però molte le cose che non funzionano in termini di sceneggiatura, soprattutto a ridosso del finale. Dal Re della Notte che muore come un citrullo – dimostrando che una minaccia ancestrale durata intere ere poteva esser risolta in una frazione di secondo – ai draghi di Daenerys, che o sono incapaci di schivare finanche un piccione o al contrario sono in grado di sputare fiamme esplosive all’infinito mentre fanno piroette da circo. C’è poi la meravigliosa Cersei, la quale da maestra della strategia diventa all’improvviso una statua di sale che nonostante il vantaggio numerico e il potentissimo Altofuoco non sa fare di meglio che rinunciare allo scontro campale e anzi asserragliarsi immobile, difesa da un esercito di inetti. C’è quindi l’opportunista Euron, che sbuca dal nulla alla ricerca di un duello immotivato pur sapendo che ‘la sua regina’ ha ormai perso, e dall’altra parte Jaime, che ex abrupto pianta in asso Brienne e si teletrasporta dalla sorella vanificando in un certo senso un bellissimo arco evolutivo di ravvedimento durato un’intera serie. In poche parole, ci sono una moltitudine di scelte incoerenti col passato dei personaggi o ingiustificabili con motivazioni solide, che sono comprensibili alla luce della necessità di sbrigarsi a chiudere tutto, ma confrontate con i fasti di ieri lasciano l’amaro in bocca.
A Dream of Spring Time (Un Sogno di Primavera), l’ultimo episodio nonché l’unico dell’intera serie in cui la regia è firmata a quattro mani da David Benioff e D. B. Weiss, nonostante scelte che potrebbero ovviamente non soddisfare tutti riporta la serie su un binario di completezza, e – dopo un inizio tumultuoso – con i suoi tempi sorprendentemente dilatati riesce di nuovo a mettere al centro i personaggi (anche se Jon Snow continua a non sembrare un campione di perspicacia). Pure qui non mancano forzature, troviamo salti temporali mal montati e non c’è tutta l’emozione che sarebbe lecito aspettarsi; ma risulta comunque una degna conclusione nella quale i due showrunner, nell’ambito di un finale multiplo, regalano anche un bellissimo montaggio alternato che segue l’incedere di alcuni comprimari. Rimane l’impressione che George R. R. Martin avrebbe fatto scelte molto diverse, ma può andar bene così.
DARE A UNA SERIE TV UNA DIMENSIONE CINEMATOGRAFICA È UN MERITO CHE SI PAGA CARO: COSA ABBIAMO IMPARATO DA GAME OF THRONES.
Cercando di non appiattire quel glorioso esperimento televisivo che ha rappresentato Il Trono di Spade su una conclusione che in una misura o nell’altra non avrebbe potuto che scontentare molti, possiamo però imparare una lezione preziosa sui confini che separano il cinema dalla televisione.
Mentre le pellicole per il grande schermo continuano ad esser percepite come forme espressive più nobili di quelle della serialità del piccolo schermo – da Cannes agli Oscar, passando per molti autori della settima arte – quanto visto con Game of Thrones riporta il dibattito sui giusti binari, mettendo da parte la dualità sala-salotto e facendone non tanto una questione di canali distributivi quanto di linguaggi.
Al netto della spettacolarità dei draghi, degli imponenti scontri campali o di altri momenti di ‘facile’ effetto, il più straordinario pregio che ha contraddistinto i momenti migliori di questa pietra miliare della TV è stata la scrittura. Grazie alla magistrale penna di Martin, Benioff e Weiss in questi nove anni ci hanno saputo regalare personaggi straordinariamente complessi, sfaccettati e contraddittori quasi fossero vivi, e per farlo hanno avuto a loro disposizione una risorsa che il cinema non avrà mai nella stessa misura del piccolo schermo: il tempo. Raccontare in tutta la loro ricchezza le sfumature del pensiero, dei dubbi, delle ambizioni e dei sentimenti umani richiede decine e decine di ore di montato, e anche il più lungo dei film non potrà mai sfruttare lo stesso metraggio a disposizione di una storia a puntate.
Al cinema è normale vedere tanti eventi importanti condensati in poco tempo, dare per scontato ciò che accade fuori dallo schermo per seguire archi evolutivi che in un paio d’ore ci introducono ai personaggi, li costringono a misurarsi con una sfida e poi ne raccontano la risoluzione. Non c’è niente di sbagliato, anzi, ed è un linguaggio che ci ha regalato capolavori su capolavori. Però in televisione il ritmo da blockbuster fantasy in tre atti non funziona, o almeno non con la stessa rapidità e se in passato siamo stati abituati a un affresco narrativo ben più sofisticato. Condensare eventi drammatici in un metraggio più breve contribuisce di certo a creare un senso epico, ma è proprio sotto il peso dell’epica che abbiamo perso un po’ dello spirito intimo e intriso di dubbi che ci ha fatto innamorare de Il Trono di Spade. Spirito che fortunatamente in qualche misura abbiamo ritrovato in una 8×06 che proprio dell’epica ha fatto presto a meno.
Con i 90 milioni di dollari da dividere per 6 puntate, Benioff e Weiss hanno fatto l’impossibile, e anche se in The Bells la CGI non sempre era pulitissima o se l’espediente di una fotografia scurissima ha aiutato a risparmiare molto sui rendering di The Long Night, quest’ultima stagione è un vero miracolo produttivo da cui Hollywood dovrebbe imparare molto. Tuttavia se bisogna ridurre il numero di puntate per farsi bastare un budget inadeguato a raccontare la storia in oggetto, e se in quel numero incredibilmente basso di puntate bisogna far convivere molta azione con la risoluzione di decine di archi narrativi ancora in piena evoluzione, il risultato non può che essere questo.
In fin dei conti quindi, nonostante fin troppi aspetti della conclusione di Game of Thrones non ci abbiano soddisfatto, non possiamo lamentarci eccessivamente degli showrunner e del loro lavoro. Si sono trovati a dover far collimare scontri fantasy dalle dimensioni cinematografiche con meccaniche di sceneggiatura proprie di una serie prettamente costume drama, e nel farlo si sono imbattuti in limiti di formato quasi insormontabili (se non con budget quattro o cinque volte più generosi). La loro unica pecca è stata quella di cercare nuove sfide dopo 14 anni sugli stessi personaggi (il primo trattamento è del 2006), e di non aver voluto passare il testimone ad altri head writers che li sostituissero. Ma voi al posto loro avreste condiviso con qualcun altro la paternità di un pezzo di storia della TV come Il Trono di Spade?