Il “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta e l’incubo di Cosa Nostra passano attraverso lo sguardo di Marco Bellocchio, nella difficilissima trasposizione cinematografica di quella che è una tra le pagine di cronaca più drammatiche e veritiere dei nostri tempi. Arrivato in sala il 23 maggio, in contemporanea con la presentazione a Cannes (unico film italiano in concorso, accolto da giudizi quasi unanimemente positivi) e nel giorno in cui ricorre il 27esimo anniversario della strage di Capaci, Il Traditore rappresenta la tragedia dei nostri tempi, dove il linguaggio della narrazione deve fare i conti con l’asprezza della realtà, in un gioco di ruoli complesso e delicato.
Ad interpretare don Masino è Pierfrancesco Favino, nel ruolo più complesso della sua intera carriera. L’attore romano splende negli abiti firmati di Buscetta, si incupisce nella freddezza delle sue reazioni, non dimostra mai passioni e debolezze. Riesce, seppur con le difficoltà legate al dialetto palermitano, ad essere sempre credibile, nei panni di un uomo che a stento parlava correttamente l’italiano, ma che viveva tra il Brasile e gli Stati Uniti. Con un passo estremamente lento, un sorriso laterale appena accennato e un modo di parlare gutturale, il Tommaso Buscetta di Favino è spaventosamente vicino al reale, mentre la camera ne prende costantemente le distanze, attraverso un gioco di stacchi che lascia sempre al regista (e al pubblico) la parte di osservatore critico.
Insieme a Pierfrancesco Favino, Bellocchio ha scelto un cast quasi esclusivamente composto da attori di origine siciliana, mentre la moglie Cristina è interpretata dalla brasiliana Maria Fernanda Cândido. Coprotagonisti Fabrizio Ferracane (Pippo Calò), Luigi Lo Cascio (Totuccio Contorno) e Fausto Russo Alesi (Giovanni Falcone).
Il film si apre nella Palermo dei primi anni ’80, mentre sono all’apice le tensioni tra i boss legati alle cosche palermitane e i corleonesi, guidati da Totò Riina. In ballo c’è il controllo di un enorme traffico di droga e il potere della cosiddetta “Piovra”. La messa in scena inizia con una grandiosa festa di Santa Rosalia, abbracci, canti, balli e l’immancabile saluto dei più famigerati boss di Cosa Nostra alla “Santuzza”, per dare successivamente il via ad una serie di omicidi, rapimenti e stragi che apriranno al primo vero processo, per demolire la piramide della mafia.
Buscetta, in esilio in Brasile con la maggior parte della famiglia, viene colpito indirettamente dalla “lupara bianca” che commissiona l’omicidio dei suoi due figli rimasti in Sicilia. Estradato in Italia, dopo un blitz nella sua lussuosa villa di Rio, è prelevato dal giudice Giovanni Falcone, che chiede al boss di collaborare e testimoniare contro gli affiliati per dare finalmente il via al primo vero processo contro Cosa Nostra, il cosiddetto “maxiprocesso” che vide sul banco degli imputati 460 membri dei clan (o presunti tali).
Soltanto uno spirito libero come Marco Bellocchio, un vero maestro del cinema italiano, poteva raccontare un simile personaggio con un tale equilibrio e mantenendo fermamente il suo punto di vista, mai degenerando verso facili interpretazioni. Tommaso Buscetta non suscita alcun sentimento di pena, non è un eroe, non è un mito né un leader. E’ un uomo con la quinta elementare che ha scelto la strada sbagliata, ma non è in cerca di redenzione, quanto di ascolto e protezione.
Deluso da un gruppo di delinquenti che ha smesso di seguire le “regole d’onore” dell’associazionismo mafioso, Buscetta, nel ritratto di Bellocchio è ambiguo, spogliato del suo potere, libero di inseguire il suo sogno di indipendenza dalle cosche, eppure limitato nelle sue dichiarazioni da un muro di omertà e paure, difficile da abbattere.
Complicato stabilire un confine tra l’uomo e il boss, anzi il soldato perché Buscetta a suo dire non è mai stato un capo e definirne la vera natura. Marco Bellocchio e gli autori con cui ha scritto la sceneggiatura Ludovica Rampoldi, Valia Santella e Francesco Piccolo si incamminano in un percorso ad ostacoli utilizzando il linguaggio giornalistico per strutturare il film, senza concedere troppe libertà ai protagonisti, ma rimanendo fedeli alla narrazione di fiction, intervallando la cronaca con episodi onirici e immagini intimiste.
La regia è molto teatrale e si affida ad un’interpretazione per immagini di stampo classico, dove il palcoscenico è rappresentato dall’aula bunker del tribunale di Palermo. Non è difficile intuire un rimando alla struttura della classica tragedia greca con il prologo, la parodos, gli episodi e l’esodo. Il pianto delle donne a lutto per i numerosi omicidi, accompagna le scene più violente, mentre un protagonista ambiguo prende tutta la scena. Le gabbie, in cui sono rinchiusi gli imputati al processo, ci ricordano quanto sia vicina la distanza tra l’uomo e l’animale e il grande chiasso dei boss alle sbarre non fa altro che alimentare un’unica domanda: “È successo davvero?”. Come in un antico spettacolo teatrale, l’aula bunker di Palermo accoglie i protagonisti della tragedia con urla, strepiti, isteria collettiva e la follia dell’ambizione, croce degli uomini deboli.
Il Traditore non è soltanto un lungometraggio ma rappresenta il punto di vista di un esponente della cultura italiana, che dal suo primo film I Pugni in Tasca, a Buongiorno Notte, fino al controverso Bella Addormentata, non ha mai dimenticato il suo essere e non si è mai asservito a logiche di potere. Il film è un’analisi ragionata di un fenomeno canceroso per un Paese, che tristemente, rimane diviso tra chi accetta la mentalità mafiosa e chi la combatte, sempre e comunque.