Ci sono produzioni che giocano astutamente con i moti d’affetto dello spettatore, lo seducono e lo ingannano a tal punto da mostrare la propria natura artificiosa risultando infine respingenti. Altre, con le stesso intento, scatenano empatia per mezzo di piccoli accorgimenti, giustapposizioni di eventi quotidiani che lo confortano e lo rendono partecipe di ciò che vede, senza troppi giochi di mano. Takara – La Notte Che Ho Nuotato (titolo originale La nuit où j’ai nagé) del francese Damien Manivel e del nipponico Kihei Igarashi, presentato nella sezione Orizzonti della 74. Mostra Internazionale D’arte Cinematografica di Venezia e dal 23 maggio nelle nostre sale con Tycoon Distribution, rientra di diritto nella seconda categoria di pellicole sopra citate.
La giornata solitaria di un bambino di sei anni è ritmata da un’articolazione in capitoli e da un sonoro che connotano già dai titoli di testa il mondo semi-fiabesco che verrà mostrato di lì a poco: la traccia grafica del titolo ha la grafia infantile del bambino alle prime esperienze scolastiche, la totale assenza di parola lo rende fortemente mimico e dunque dipendente da una certa tradizione cinematografica (da Sennett a Tati), mentre il Vivaldi in sottofondo rimanda alla spensierata dimensione fanciullesca del protagonista. Si sprecano allora le inquadrature fisse e autoconclusive, per mezzo delle quali si mostrerà il bambino avviarsi verso la scuola, mangiare, baloccarsi, canticchiare, prendere il treno con la tipica goffaggine dei modelli di cui sopra.
L’inverno giapponese ha lasciato in eredità neve e gelo, il protagonista rinfagottato è un piccolo uomo indipendente che si gestisce come può, ed è proprio nei dettagli che una tale sequela di azioni quotidiane riesce a sembrare estremamente naturale, quasi che il protagonista non stia recitando ma semplicemente interpretando il proprio essere fanciullo: cade nella neve, si dondola, gioca con il ghiaccio, perde un guanto senza nemmeno rendersene conto, porta lo zaino sotto le spalle. Emblematica in questo senso risulta allora la scena dell’attraversamento della strada, in cui con disarmante ingenuità lo vedremo guardare mille volte a destra e a manca prima di tentare la traversata, mentre le auto inizieranno a spazientirsi.
Takara – La Notte Che Ho Nuotato non si nega certo risvolti più struggenti, ma sa inserirli in un candido contesto capace di veicolare con semplicità l’idea tematica portante, quella dell’amore per il proprio nucleo familiare. Si guardino a tal proposito le insistenti inquadrature sul disegno fatto dal bambino, raffigurante gli stessi pesci che il padre vende al mercato, e ancora la voglia di andarlo a trovare sul posto di lavoro, che lo costringe a stare fuori da casa tutta la giornata.
L’effetto finale è amorevole e sapientemente misurato, con i suoi 79 minuti che evitano qualsivoglia ripetizione. Il finale suggerisce poi una costruzione circolare della narrazione (grazie alle ultime due inquadrature identiche alle prime due) che circoscrive ancor di più ciò che si è visto a semplice quotidianità, routine che dovrà ripetersi ancora e ancora, dichiarando così implicitamente il gusto di mostrare il piccolo evento, quanto mai riuscito come in questo caso.