Che la regista Margaux Bonhomme arrivi dal mondo della fotografia lo si capisce subito: il suo esordio dietro la macchina da presa ricorda fin da subito l’estetica del pedinamento dei fratelli Dardenne, con quella centralità di ciò che è reale e corporeo e senza nessuno filtro nei confronti di una storia dolorosa e a tratti lancinante. Ma ciò che sorprende davvero della sua opera prima non è solo la capacità di restituire la vita in modo così nitido, ma di farlo attraversando una struttura solidissima, per scrittura, interpretazioni e riflessioni narrative.
Tra responsabilità e realtà
La vicenda attraversa il quotidiano di una famiglia. Elisa (Diane Rouxel) è una studentessa con tanti progetti futuri, ma la sua vita è assorbita quasi completamente dalle necessità di Manon (Jeanne Cohendy), sorella con gravissime disabilità fisiche e mentali, incapace di essere autosufficiente. Mentre il padre François (Cedric Kahn) si rifiuta di ricoverare Manon in un centro specializzato – incrinando per sempre la relazione con la moglie – Elisa continua ad assistere Manon ogni giorno in casa, dividendosi i compiti e i turni con il genitore. Ma la vita, fatta di amore, sesso e amicizie, inizia a bussare alla porta ad Elisa, che presto diventa consapevole dell’urgenza di prendere decisioni importanti, alcune delle quali influenzeranno per sempre il suo futuro e quello della sua famiglia.
Un coming of age intimo e tormentato
Margaux Bonhomme, che insieme a Fanny Burdino ha lavorato per un anno e mezzo sulla sceneggiatura assimilando i suggerimenti degli attori del film, dirige con una lucidità sorprendente. Piani stretti, quasi soffocanti, per un 4/3 che segue i protagonisti soprattutto nella loro fisicità, nella materialità delle faticose azioni quotidiane. Mentre le grida e gli spasmi compulsivi di Manon avvolgono tutta la visione e diventano sempre più opprimenti e angoscianti, la Bonhomme non indugia mai a restituire l’affanno e lo strazio della situazione ma allo stesso tempo non si scopre, in nessun momento, come occhio morboso e indiscreto, anzi: su una vicenda straziante e delicata è capace di tenere un distacco morale che ha quasi del miracoloso. Grazie ad una scrittura solida e intelligente e ad un uso chirurgico ma efficace della colonna sonora (ci sono anche i Radiohead con Weird Fishes) la Bonhomme fa crescere la sua protagonista attraverso un conflitto profondo che diventa poco a poco insostenibile e impossibile da ignorare: assistere la sorella disabile o decidere di vivere la propria vita senza esserne dipendente? A questa domanda la regista francese non sceglie scorciatoie buoniste o compassionevoli, ma complica il discorso e pone la questione su i livelli interiori di Elisa restituendo un coming of age intimo e tormentato.
Il lavoro sui personaggi
Mentre la Bonhomme costruisce questa atmosfera impervia sono gli attori del film a rendere al meglio quelle interiorità su cui poggia l’intero film. Bravissima Diane Rouxel, giovane promessa del cinema francese, a rappresentare una trasformazione sotterranea, quasi impalpabile quanto improvvisamente esplosiva; eccezionale Jeanne Cohendy a interpretare la sorella disabile, centro oppresso e oppressivo di tutta la narrazione, tanto che qualche spettatore a fine proiezione non ha capito di essersi trovato di fronte a una mimetizzazione attoriale. Dopotutto la Cohendy ha lavorato sul proprio personaggio relazionandosi per quasi un anno con la sorella della Bonhomme che è realmente una ragazza disabile. Perché quella di Marche Ou Crève è anche una storia ispirata alla biografia della regista francese che sui titoli di coda dedica il film proprio alla sorella handicappata.
Un’opera prima dunque che è somma di un lavoro introspettivo ed espressivo notevole e che sorprende soprattutto per la capacità di riconsegnarlo allo spettatore con una crudezza atipica quanto necessaria.