Presentato in anteprima italiana al Biografilm Festival di Bologna, What’s My Name: Muhammad Ali è un documentario tanto lungo quanto completo sul più grande pugile di tutti i tempi. Privo di retorica, questo prodotto diretto da Antoine Fuqua e narrato da Liev Schreiber è senza dubbio l’opera migliore su Ali dai tempi di Quando Eravamo Re (1996).
L’IMPORTANZA DI CAPIRE LA CULTURA SPORTIVA AMERICANA
Gli appassionati di Basket (e non) avranno notato che, esattamente un anno fa, LeBron James, il più forte cestista al mondo, ha abbandonato la periferica Cleveland per trasferirsi a Los Angeles, più precisamente alla corte dei Lakers. Già dal momento della firma gli addetti ai lavori hanno assegnato alla decisione di James un carattere più commerciale che sportivo. Il numero 23 sarà nel prossimo Space Jam e soprattutto possiede, insieme all’imprenditore Maverick Carter, una compagnia che per la HBO ha prodotto lo show The Shop e What’s My Name: Muhammad Ali.
Lo slogan che da tempo accompagna i vari brand di James è “More than an athlete“, ovvero “più di un atleta”. Questo motto può essere perfettamente applicato a tutta la storia sportiva americana, ideologicamente ed economicamente lontanissima dalla nostra, europea e italiana. Sin dai tempi del pugno al cielo di Tommie Smith e John Carlos alle olimpiadi di Città del Messico, lo sport statunitense è infatti sempre stato profondamente politico.
Ciò è accaduto poiché la grande maggioranza di atleti che rappresentavano la nazione (alle olimpiadi o ai tornei mondiali) erano afroamericani. Vittime di razzismo in patria, sottopagati e trattati spesso come cittadini minori, essi contribuivano in larghissima parte alla gloria sportiva americana. Una contraddizione che vedeva gli afroamericani sfruttati e “i bianchi”, come dice Ali nel documentario, che si beavano delle vittorie.
Inoltre, per quanto si tratti di una generalizzazione, spesso gli atleti afroamericani (in passato e anche ai giorni nostri) sono segnati da un’infanzia difficile, fatta di quartieri malfamati, carenze affettive e povertà. È il caso di grandi cestisti come lo stesso Lebron, Kevin Durant o Jimmy Butler; tre campioni che con lo sport si sono presi una rivincita e si sono “tolti dalla strada”.
Per queste ragioni (e non solo, ovviamente) gli americani intendono lo sport come una cosa incredibilmente seria. Se da noi i film sul calcio sono L’allenatore nel pallone, Tifosi o Eccezziunale veramente i film sulla pallacanestro o sul football per loro sono Hoosiers – colpo vincente , He Got Game o documentari del calibro di Quando eravamo re o dello stupendo Once Brothers, un’opera sull’amicizia fra due cestiti slavi (uno serbo, Vlade Divac e uno croato, Drazen Petrovic) diventati rivali a seguito della dissoluzione della Jugoslavia e della guerra civile.
Lo sport americano è scevro da tutto quello che invece è importante per noi: non esistono “bandiere” (come Totti, per intenderci), non esiste il tifo organizzato, si contano sulle dita di una mano i casi di corruzione (con l’eccezione dei college) e il livello di giornalismo sportivo è ben più elevato del nostro. Gli statunitensi vedono lo sport da due punti di vista teoricamente inconciliabili ma che da anni vanno d’accordo: quello politico e quello economico. Due anime che in Muhammad Ali convivevano egregiamente. Ogni atleta, ogni squadra e ogni lega sono brand e così vengono chiamati e trattati. Pensate al recente caso di Colin Kaepernick, l’atleta che per primo si è inginocchiato durante l’inno americano. Dopo essere stato ostracizzato dalla NFL egli è stato scelto dalla Nike per diventare il testimonial di una importante campagna pubblicitaria internazionale.
WHAT’S MY NAME: MUHAMMAD ALI RACCONTA EGREGIAMENTE LA VITA SPORTIVA DEL GRANDE PUGILE E LASCIA SULLO SFONDO LA POLITICA
What’s my name: Muhammad Ali è composto solamente da immagini di repertorio (alcune inedite) accompagnate da una voce narrante. Questa scelta di Fuqua si rivela particolarmente felice, specialmente perché il regista di Training Day decide di lasciare saggiamente in secondo piano la politica e tutta la retorica che accompagnano la figura di Ali sin dal suo primo incontro. Certo, non mancano dichiarazioni del pugile sulla sua conversione al islam o sul suo rifiuto di andare in Vietnam. Eppure esse stanno sullo sfondo, mentre in luce ci sono soprattutto i “guantoni”.
Il documentario infatti si concentra sulla carriera sportiva del pugile, sulla sua imbattibilità e la sua ineguagliabile abilità dialettica. Ali dava alle conferenze stampa la stessa importanza che dava agli incontri. Il combattimento, per lui, cominciava davanti ai microfoni. Così sentiamo il pugile urlare continuamente “I’m the greatest!” (Io sono il migliore) prima di ogni incontro e sminuire l’avversario di turno che non era in grado di rispondere alle sue provocazioni.
Sul ring, poi, Ali continuava a provocare il rivale, insultandolo senza sosta dal primo all’ultimo round. Egli ha inventato il cosiddetto “Trash Talking”, ovvero la pratica del provocare gli avversari parlando continuamente contro di loro in ogni incontro, partita o battaglia nello sport americano. Grazie semplicemente alle sue parole, Ali era in grado di indirizzare il tifo del pubblico: o tutti con lui o tutti contro di lui. L’ex Cassius Clay è stato il beniamino e il nemico, volava “come una farfalla” e “pungeva come un’ape”. Odiato e amato mentre era in vita e oggi universalmente considerato una delle più importanti icone afroamericane del secolo scorso.
Poco importa se siete appassionati o no di boxe: difficilmente troverete documentari su Ali più interessanti di questo. Negli anni passati la cinematografia sul pugile si è occupata talvolta del suo ruolo di attivista e talvolta degli incontri più importanti come il Thrill in Manila e il Rumble in the Jungle. Documentari interessanti ma ovviamente incompleti e parziali.
What’s My Name: Muhammad Ali è la più completa pellicola su quello che è stato indubbiamente il più influente e importante pugile della storia, nonché lo sportivo più riconoscibile del ‘900 insieme a Maradona e Michael Jordan. Dopo la Boxe Ali ha lavorato come attivista e mediatore cultuale, viaggiando in sud-africa per incontrare Mandela dopo la fine dell’apartheid e contribuendo alla liberazione di alcuni ostaggi americani di Saddam. Il pugile non si è mai fermato, ha continuato a desiderare il combattimento nonostante, secondo i medici, sia stata proprio la Boxe a portare Ali a contrarre il Parkinson, malattia che lo ha accompagnato fino alla morte nel 2016.
La vita di Cassius Clay non può certo essere interamente e completamente raccontata in 3 ore di cinema, ma What’s My Name: Muhammad Ali è ad oggi il prodotto che più si avvicina a questo fine. Il documentario è disponibile su Sky on Demand e sarà trasmesso venerdì 21 giugno alle 21:15 su Sky Arte