Una villaggio minerario in mezzo al nulla del deserto australiano è il teatro che rimanda a lotte secolari tra colonizzatori e aborigeni, una volta padroni di quelle terre. Lì sono stati tramandati ricordi di violenza e sangue che nessun aborigeno ha mai dimenticato, anche se l’istinto di sopravvivenza li spinge verso la rimozione e il compromesso con i conquistatori. Il nome del villaggio, e del film, è Goldstone. Un cartello di benvenuto in mezzo alla sabbia, un bar, un albergo che affitta tre camere, ognuna delle quali è una roulotte, un municipio con una sindaca, un posto di polizia in cui opera soltanto l’agente Josh (Alex Russel), una manciata di case ma soprattutto la miniera di Furnace Creek sui cui gravitano interessi milionari che la sindaca Maureen (Jaki Weaver) protegge con metodi corruttivi e intimidatori, allo stesso modo dei proprietari di cui è complice. Goldstone esiste soltanto perché c’è la miniera, una vera e propria ‘miniera d’oro’ dove ognuno protegge se stesso e tutti insieme a protezione di quel microcosmo dove gli operai che ci lavorano sono sistemati in un agglomerato di container, ma a cui la proprietà dà di che vivere e di che divertirsi in un locale in cui alcune donne sono costrette a prostituirsi. Il sistema fa leva su diverse attività criminali, tra cui una vera e propria tratta di donne che periodicamente vengono assoggettate, schiavizzate e costrette a “lavorare” nel locale. Gli aborigeni, che ben conoscono la schiavitù, sono a conoscenza di tutto ciò ma chi si ribella non lo potrà raccontare; alcuni di loro hanno però trovato una collocazione nell’ingranaggio, e naturalmente anch’essi non in linea con la legalità.
È in questo quadro e in questo territorio desolato e arido, non solo in senso geografico, che Jay (Aaron Pedersen), un detective di origini aborigene, arriva per indagare su una ragazza asiatica scomparsa. Il contatto tra lui e il poliziotto non sarà dei più amichevoli. Josh è un ragazzo che resiste alle tentazioni di chi vuole corromperlo ma sa anche che quel sistema non permette di tirare troppo la corda e mette a dura prova il suo servizio come uomo di legge. La precedenza è quella di limitare i danni, prima di tutto per se stesso. L’arrivo di Jay però gli darà una spinta a “dare retta a una parte di me che mi dice come dovrei essere e che non sempre ascolto”.
Goldstone arriva nelle sale cinematografiche italiane con Movies Inspired l’8 agosto, dopo essere stato presentato al Festival di Toronto nel 2016 e nello stesso anno proiettato nella selezione ufficiale alla Festa del cinema di Roma. Chi ha avuto l’occasione e la fortuna di poterlo vedere nella kermesse di Antonio Monda troverà un film ancora migliore. Per quanto tre anni siano un tempo infinitamente breve nella storia di un film, Goldstone mantiene e addirittura aumenta la sua attrazione. Il regista Ivan Sen, anche lui aborigeno australiano, ha voluto che i tempi del suo lavoro fossero dilatati e scanditi da paesaggi mozzafiato, dove i colori sono esaltati dalla luce naturale in tutte le ore del giorno e della notte. Tempi distesi come le distese desertiche e la strada, una piccola striscia d’asfalto che si perde a vista d’occhio ed è a tratti divorata dalla sabbia. Un processo d’insabbiamento a cui metaforicamente si sottraggono i due detective, che invece non perdono la direzione e per orientarsi si sorreggono l’uno con l’altro.
Sen, autore anche delle meravigliose musiche, della sceneggiatura, del montaggio e della fotografia, ha messo in piedi una storia coerente ma forse un po’ troppo generalista. In Goldstone vivono personaggi interessanti, nel bene e nel male; è estremamente semplice schierarsi con loro o contro di loro dal punto di vista morale, ma nessuno viene approfondito a dovere e lo spettatore ne percepisce soltanto le potenzialità. Ed è forse questo, più che il ritmo, il punto di debolezza del film. Piuttosto la domanda è un’altra, e qui invece il regista è impietoso con i suoi personaggi ma probabilmente ancor più con gli spettatori: “Quando troverai la verità cosa ne farai?”.