Presentato fuori concorso all’ultima edizione del Locarno Film Festival, Wilcox è il nuovo film del regista indipendente Denis Côté, un veterano della rassegna elvetica (la pellicola è disponibile su FestivalScope fino al 31 agosto). L’opera, nonostante sia stata realizzata con un budget esiguo e abbia una durata ridotta (poco più di sessanta minuti), riesce a dare forma e anima alla visione del cineasta canadese.
UN PROTAGONISTA MISTERIOSO DI NOME WILCOX
Un uomo (Guillaume Tremblay) con indosso una divisa militare, su cui è inciso il nome Wilcox, vaga per le strade del Canada, attraversando piccoli centri abitati e zone completamente immerse nella natura selvaggia. Le sue giornate scivolano sulla solitudine, tra piccoli furti di viveri e la ricerca di un rifugio per la notte; tuttavia, lungo il tragitto, gli capita a volte di incrociare e conoscere altri individui – alcuni di questi molto stravaganti, come il vecchio hippie suonatore di chitarra – che gli permettono di congedarsi momentaneamente dall’isolamento del viaggio. Ma chi sia effettivamente Wilcox, e quale sia la sua meta ultima, resta un mistero irrisolto.
Punto di partenza del film sono le brevi biografie – sei in totale, tre distribuite nei primi minuti e altre tre negli ultimi – che appaiono sullo schermo nero. Biografie di personaggi erranti e tragici, votati all’avventura, che hanno molto in comune con il protagonista e che vedono nel viaggio molto più di uno strumento d’evasione. Tra questi c’è anche Christopher McCandless, il famoso Supertramp di Into The Wild (2007), la cui storia ha affascinato e commosso milioni di spettatori. Wilcox potrebbe essere benissimo la summa cinematografica dell’essenza di questi personaggi e dei moti interiori che li hanno animati, una rappresentazione cinematografica celata nel mistero ma poco drammatizzata. Wilcox non è un personaggio che crea empatia: commette infatti piccoli furti, cammina tra i boschi, interagisce con le persone che incontra e nulla più. È un uomo totalmente privo dell’aura romantica dell’avventuriero, lontano anni luce dalla poetica rappresentazione che Sean Penn volle per il McClandless di Into the Wild. Più che un problema di scarsa capacità di caratterizzazione, la scelta del regista sembra essere invece studiata a tavolino: Wilcox è un personaggio che si sposa perfettamente con lo stile registico di Côté, sempre in bilico tra il documentario e la fiction. Il protagonista è una pedina nelle mani dell’autore, mossa senza tregua sull’ampia scacchiera dell’investigazione esistenziale di un film dalla natura antropocentrica.
IL TOCCO SPERIMENTALE DI UN REGISTA FUORI DAI CIRCUITI MAINSTREAM
Nel corso della sua carriera, Denis Côté non è mai sceso a compromessi con i distributori. Il risultato è una filmografia composta da lavori sperimentali, estranei alle logiche commerciali dell’industria cinematografica, di derivazione avanguardista, sia nella scelta dei temi da affrontare che nell’aspetto strutturale ed estetico. Wilcox non fa eccezione: qui la sperimentazione sulla sintassi e sulla grammatica audiovisiva è predominante. Innanzitutto bisogna specificare che, per tutta la durata del film, non c’è alcuna traccia di dialogo: l’unico elemento sonoro è identificabile nei brusii della natura circostante, oscillanti tra il diegetico e l’extradiegetico. La macchina da presa incalza il protagonista, conferendo alla pellicola l’aspetto tipico del documentario; la fotografia è contrassegnata da luci eccessivamente chiare e resa ancora più stravagante dall’applicazione di un filtro che evoca l’effetto dello schermo macchiato. Non manca neppure l’atmosfera onirica, ricreata attraverso l’inserimento di brevi filmati in bianco e nero mostranti persone mutilate. Tutte queste scelte estetiche, unite alla sfuggevolezza del protagonista, creano nello spettatore una sorta di turbamento d’animo, che si dissolve soltanto dopo i titoli di coda.