James Gray, che tre anni fa era dietro la macchina da presa del riuscito Civiltà Perduta, con il suo nuovo lavoro Ad Astra ha pensato evidentemente di aggiungersi alla folta schiera di autori che negli ultimi tempi si sono misurati – con toni a volte realistici e a volte fantascientifici – con il tema dell’esplorazione spaziale. Il film della Fox, presentato in concorso alla 76a Mostra del Cinema di Venezia e in uscita nelle nostre sale il 26 settembre, si innesta infatti nel solco di una tendenza che – saldamente radicata nei precedenti illustri e lontani nel tempo di 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick e Solaris di Takovskij – ha visto nell’ultimo decennio un fiorire di titoli come Moon di Duncan Jones, Gravity di Alfonso Cuarón, Interstellar di Christopher Nolan, The Martian di Ridley Scott, First Man di Damien Chazelle ma anche Arrival di Denis Villeneuve e High Life di Claire Denis. Opere tutte molto diverse tra loro, eppure con il tratto comune di riuscire a sposare con grande potenza la spettacolarità del contesto con tematiche apparentemente stridenti tra loro, quali il pionierismo di chi guarda oltre la terra e l’intimità dei sentimenti di chi guarda dentro di sé.
AD ASTRA HA TUTTA L’AMBIZIONE DELLA GRANDE FANTASCIENZA D’AUTORE PUR NON POTENDOSELA PERMETTERE
L’intuizione di Gray – quella di cimentarsi con un filone tanto fortunato – era più che legittima, ma a relegare il suo lavoro su un piano ben meno nobile dei suddetti film vi è il fatto che tanto nello script (firmato a quattro mani con Ethan Gross) quanto nella realizzazione Ad Astra sia un costoso disastro da quasi 90 milioni di budget, nel quale il regista fa sfoggio di un’ambizione sconfinata eppure dimostra di aver molto poco da dire.
La storia del film sulla carta sembrerebbe addirittura complessa: mentre il mondo è minacciato da distruttive ‘esplosioni di energia’ provenienti dallo spazio, l’astronauta e militare Roy McBride (Brad Pitt) viene mandato in missione segreta dall’altra parte della galassia per comprenderne l’origine dei pericolosi fenomeni e salvare (da solo) la Terra. La speranza è che dopo aver fatto scalo nelle colonie umane sulla Luna e su Marte, possa contattare o raggiungere in qualche modo il padre (Tommy Lee Jones), anche lui astronauta, che trent’anni prima lo aveva abbandonato per recarsi nell’orbita di Nettuno alla ricerca di vita extraterrestre e che ora sembra in qualche modo collegato a quell’Apocalisse imminente.
IL NULLA DELLO SPAZIO NON È NULLA RISPETTO AL NULLA DELLO SCRIPT
La verità è che Ad Astra è un melodrammetto fantascientifico molto più lineare e addirittura piatto di quanto possa sembrare, e che – al netto di un continuo spreco di budget in effetti speciali del tutto inutili allo sviluppo della storia – finisce presto per rivelarsi l’equivalente cinematografico di una frase di Fabio Volo in chiave sci-fi; una banalità del tipo: «a volte vai a cercare lontanissimo qualcosa che avevi sempre avuto vicino ma non avevi mai visto». Una storia piccola e poco interessante in un contesto immenso ma non affascinante, un racconto senza grandi slanci e quasi senza il minimo segno di sviluppo dei personaggi che nel finale viene chiuso con la forza tramite esagerazioni tanto iperboliche da risultare risibili.
Gray, fin troppo convinto dei propri sforzi, aveva preannunciato la pellicola come una sorta di Cuore di Tenebra, capace però di mostrare «la miglior rappresentazione dello spazio mai vista in un film»; eppure vedendola è evidente come della sofisticata riflessione sul confronto tra civiltà di Conrad non vi sia la minima traccia, e come il millantato realismo si infranga in alcune delle scene più ridicolmente improbabili mai viste nel cinema di fantascienza.
IL TONO INUTILMENTE SOLENNE DEL FILM NON AIUTA CERTO A RENDERLO MENO NOIOSO
A penalizzare ulteriormente un film dallo script debole, interamente costruito su una scadente voce fuoricampo filosofeggiante e su un commento musicale di tappeti sonori in assolvenza, vi sono poi il tono monocorde e il ritmo soporifero, che sin dalle primissime battute si rivelano insieme alla grave, solenne e compiaciuta intensità ricercata a tutti i costi da “sci-fi d’autore” (gli piacerebbe). Un linguaggio così cristallizzato e onnipresente da diventare stucchevole già dopo un quarto d’ora e – cosa ancor più grave – da diventare l’espediente su cui si regge un debole copione nel quale le cose non sono mostrate ma raccontate; nella quale non ci si affida al linguaggio dell’immagine ma a interminabili spiegoni.
Infine va detto che nemmeno la componente spettacolare, costantemente penalizzata da un presunto iper-realismo molto poco gratificante, riesce a tenere agganciati allo schermo e che pure l’interpretazione di una grande star come Pitt diventa fallibile nell’unico momento in cui è richiesto un minimo di ampliamento della gamma emotiva. Alla luce di una stratificazione così infelice di pessime scelte, non possiamo che ricordarci il detto latino «per aspera ad astra», cioè «attraverso le asperità fino alle stelle». Ecco, di asperità Gray ne deve aver incontrate diverse.