A seguito di una rappresaglia da parte di Hezbollah, avvenuta il 12 luglio 2006, ebbe inizio quella che viene definita Seconda Guerra del Libano. Il conflitto civile che in realtà ha radici molto più profonde nel tempo e nel contesto socio politico del paese, durò quasi quaranta giorni, durante i quali le perdite militari furono molte. Disastrose invece quelle civili. Il film del regista Ahmad Ghossein All This Victory (titolo originale Jeedar El Sot), si sofferma a riflettere proprio su questo contesto.
Presentato alla 76. Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione parallela e competitiva della Settimana Internazionale della Critica, dove ha vinto il Premio per il Miglior Film e il Premio del Pubblico e il Premio per Miglior Contributo Tecnico, All This Victory segue la vicenda di Marwan (Karam Ghossein) proprio nei primissimi giorni del conflitto. Dopo il bombardamento nel paese in cui il padre vive, il giovane decide di andarlo a cercare per portarlo con sé a Beirut, dove lo aspetta la giovane moglie con valige e passaporti pronti per lasciare quel paese sull’orlo della distruzione. Sullo sfondo di quei paesaggi, Marwan trova strade bloccate, ponti distrutti, edifici collassati, mentre del padre non c’è traccia. Incontrerà invece gli anziani amici del padre e ex combattenti con i quali resterà bloccato in casa durante una rappresaglia tra la milizia libanese e un gruppo di soldati israeliani.
Ahmad Ghossein dirige un film che inizialmente inganna lo spettatore, dimostrando un minimalismo che però viene presto smentito. Sebbene il 90% della pellicola sia ambientata all’interno di quella casa rifugio che sembra cadere a pezzi da un momento all’altro, delimitando quindi i movimenti della macchina da presa, è anche vero che il film si presenta in maniera strutturata. La fotografia traduce in luce e ombre i sentimenti dei protagonisti, il loro terrore che riempie le stanze in una tempesta di pulviscolo che cade dai muri sotto bombardamento. Mentre il sonoro prende il sopravvento sull’immagine, raccontando perfettamente il contesto diegetico dello schermo. I passi dei nemici, le voci soffocate, i colpi di mitra, gli elicotteri, sono i suoni che scandiscono le lunghe giornate dei protagonisti. Così Ghossein lascia la retorica dietro di sé, abbandonando ogni tipo di moralismo o atteggiamento politicizzante. Se All This Victory rimane sull’orlo del politicamente schierato, è indubbio l’intento tutto riflessivo che c’è dietro alla composizione. Qualche accenno alla situazione sociale del Libano degli ultimi cinquanta anni tra i ricordi dei vecchi in compagnia di Marwan, si accostano alle considerazioni che il regista ritiene più importanti. Cioè l’estrapolazione dal contesto dei sentimenti dei protagonisti, che benché radicati nella coscienza di quel paese, sono semplicemente e brutalmente, vittime di guerra.
La paura di venire scoperti dai soldati in postazione sul tetto della casa, la paura di saltare in aria per una bomba lanciata dal cielo, la paura della morte, propria e dei loro cari, è il vero nemico del film. Tanto che, quei soldati che minacciano la loro incolumità non prendono mai posto all’interno dell’inquadratura, se non in piccolissime sezioni come un occhio, o una sagoma in controluce. Sono nemici quasi estranei a questo mondo, praticamente invisibili, eppure la loro presenza riempie l’intero film. Grazie anche a un crescendo di tensione che il regista gestisce in maniera centellinata ma costante, assicurando al film di non venire mai scambiato per un documentario. Così Ghossein racconta la paura in tutta la sua disarmante semplicità e purezza, ricordando come la guerra passi sempre e comunque prima attraverso la perdita di umanità e successivamente attraverso il contesto sociale e politico.
All This Victory non è glorioso o enfatico, non declama e non si serve di un registro formale, eppure non ha bisogno di chiarimenti e promette un impatto emotivo.