Come ogni ambiente anomalo e “lontano” dalla normalità, la prigione è stata spesso raccontata e rappresentata al cinema. Ci sono grandi esempi europei come Il Profeta di Jacques Audiard oppure cult come Le Ali della Libertà (The Shawshank Redemption), capolavoro di Frank Darabont tratto da un racconto di Stephen King e interpretato da Morgan Freeman e Tim Robbins. È proprio Tim Robbins che passa dietro la macchina da presa per raccontare a suo modo il carcere con 45 Seconds of Laughter (tradotto in italiano 45 Secondi di Risate), documentario presentato fuori concorso alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
Il film di Tim Robbins, a differenza della sua più celebre pellicola da attore, è ambientato in una prigione reale, un carcere di massima sicurezza della California. Insieme ad alcuni collaboratori, Robbins ha tenuto un laboratorio di otto mesi con dei detenuti, insegnando loro, attraverso alcuni esercizi, a superare le barriere etniche e ad esprimersi attraverso la creatività. Tra questi esercizi proprio quello che dà il titolo al lungometraggio, nel quale ci si mette in cerchio e si ride per 45 secondi.
45 Seconds of Laughter è esattamente quello che ci si aspetta: un’opera di “buoni sentimenti”, un documento per favorire un processo di umanizzazione dei detenuti. Questi ultimi, da un punto di vista fisico, rispettano lo “stereotipo” del criminale incarcerato che vediamo quotidianamente nelle opere di finzione: lacrime tatuate sotto gli occhi – simbolo del numero di persone uccise -, simboli di gang sparsi per il corpo e infine apprendiamo, tramite i voice-over dei protagonisti, che la divisione e la “lotta” tra etnie esiste.
Nel cortile – lo Yard– i caucasici stanno con i caucasici, gli ispanici con gli ispanici e così via. I detenuti lo sanno, le guardie carcerarie anche e tutti si attengono a questa regola non scritta e la rispettano. L’obbiettivo del “laboratorio” di Tim Robbins è di abbattere questi muri ideologici, creando uno spazio alternativo allo Yard, l’unico vero luogo di svago dei detenuti.
Il documentario, dunque, è certamente animato dalle migliori intenzioni, così come lo è il lunghissimo e lodevole lavoro svolto da Robbins nella prigione californiana. Il problema di 45 Seconds of Laughter è che non ha alcun tipo di svolgimento o di struttura narrativa. Al contrario di quanto succede nel cinema di finzione hollywoodiano “classico”, i protagonisti non hanno alcun tipo di epifania sprituale. I detenuti sono tranquilli e giocosi già dalla prima lezione, nonostante i vari voice-over dei detenuti stessi dicano l’opposto. Nello “spazio alternativo” – che non è nulla di più che una stanza – allestito da Robbins non alberga alcun tipo di tensione, al contrario.
L’impressione è che il film non sia un effettivo diario cronologico degli otto mesi di lavoro, quanto piuttosto degli ultimi giorni. Per questo motivo 45 Seconds of Laughter è una ripetizione degli stessi esercizi e le stesse situazioni, eccezion fatta per un segmento in cui si parla di commedia dell’arte e una dolcissima sequenza che vede i detenuti in compagnia delle proprie famiglie.
In conclusione, il documentario di Tim Robbins è degno di ammirazione per il suo contenuto, per il giusto tentativo di rappresentare i detenuti come esseri umani. Permangono diversi dubbi sulla realizzazione di 45 Seconds of Laughter, il quale, nonostante i soli 95 minuti di durata, risulta molto presto ripetitivo e monotono.