Premiato con il Queer Lion Award alla 34. Settimana Internazionale della Critica di Venezia, El Principe, primo lungometraggio di finzione di Sebastián Muñoz Costa del Río ci porta all’interno di un carcere cileno degli anni ’70 per raccontarci una storia fatta di uomini che si odiano e si amano, si disprezzano e si ammirano, in un aggrovigliarsi di sentimenti e di corpi che crea un film potente, intenso, che lascia il segno.
El Principe è, infatti, una pellicola fatta di contrasti, in cui amore e sofferenza si mescolano e danno vita a relazioni profonde e violente nella costante ricerca di se stessi e della propria libertà interiore. Sembra quasi assurdo parlare di libertà all’interno di una cella dalle mura spesse, luride e invalicabili; ma è proprio in questo contesto che Jaime (Juan Carlos Maldonado), arrestato appena ventenne per l’omicidio del suo migliore amico di cui era segretamente innamorato, esplora il suo animo, il suo corpo e riscopre la sua sessualità grazie ad un intimo rapporto con Ricardo (Alfredo Castro), uomo maturo e rispettato nella prigione.
Con passo lento e sguardo impaurito, Jaime attraversa il corridoio del carcere in attesa di essere portato nella sua cella. Una musica struggente lo accompagna, aumentando di intensità ad ogni suo passo. E parla di un amore malinconico, lo stesso che ha tradito il giovane del piccolo paese di San Bernardo, cambiando per sempre il suo destino. Entriamo insieme a lui in una piccola stanza sporca, piena di oggetti e di uomini che scrutano il nuovo arrivato con sospetto e curiosità. Li conosciamo attraverso gli occhi del protagonista, in un’alternanza di soggettive e primi piani che culminano in un lungo, silenzioso e profondo sguardo con un uomo dagli occhi cerulei. Ed è subito chiaro che lui è in cima ad una gerarchia precisa che stabilisce delle dinamiche inequivocabili all’interno della cella: è il capo, Ricardo, El Potro. Freddo, a tratti crudele, Ricardo sembra non provare pietà nei confronti degli altri detenuti, comandandoli senza lasciar loro alcuna scelta, in una quotidianità fatta di abusi e brutalità. Ma giorno dopo giorno emerge in superficie la vera essenza dell’uomo che si mostra in tutta la sua fragilità, innamorandosi del giovane Jaime. E questo sentimento passa, però, necessariamente attraverso la violenza, la sopraffazione e il dolore che trovano nello spietato ambiente carcerario il loro habitat naturale. Il sesso, così esplicito e preponderante in tutto il film, assume qui significazioni diverse. È innanzitutto strumento di prevaricazione e comando, usato per determinare chiare gerarchie. Ma è anche espressione di sentimenti che al di fuori delle mura delle celle sarebbe proibito palesare. Diventa quindi esplorazione di animi tormentati e affermazione della propria esistenza, attraverso una sensualità irruenta e senza censure che valica i confini del puro istinto carnale. In questo ambiente, Jaime si evolve, impara, matura: inizialmente costretto a camminare all’ombra di Ricardo, occupa nel tempo il suo personale spazio, sviluppando una nuova forza indispensabile per la propria sopravvivenza. E in qualche modo finisce per amare quel luogo così ostile e cruento, afferma di non volerlo lasciare: in un paradosso di rara potenza, il carcere diventa per il protagonista simbolo di libertà, emancipazione e affermazione di sé.
Trasportando lo spettatore in un ambiente duro e intriso di violenza, Sebastian Munoz gli fa vivere sensazioni profonde con una rappresentazione talmente esplicita da essere a tratti disturbante. E grazie alla recitazione di attori di grande livello, la pellicola colpisce per la sua intensità e il grande impatto emotivo: un film d’esordio che non passa inosservato e che fa presagire una lunga e prolifica carriera per il regista sudamericano.