Il lungometraggio Nell’Erba Alta, una delle ultime produzioni originali Netflix, è tratto da un romanzo breve di Stephen King e del figlio Joe Hill (ovviamente uno pseudonimo) apparso sulla rivista Esquire nel 2012 ed edito in Italia da Sperling & Kupfer l’anno successivo. Un’opera, questa, dalla quale ci si aspettava parecchio, specialmente perché segnava il ritorno di Vincenzo Natali dietro la macchina da presa a sei anni di distanza dal poco considerato Haunter.
Natali è il regista e lo sceneggiatore di uno dei più geniali film indie degli ultimi trent’anni, quel Cube – il cubo che somiglia tanto ad un racconto di King per tematiche e ambientazioni. In Nell’erba alta, infatti, i protagonisti sono un gruppo di sconosciuti – con storie e situazioni sociali diverse – che si ritrovano inspiegabilmente intrappolati all’interno di uno spazio dal quale non sanno come uscire. Proprio come nel “cubo” da cui prende il titolo il capolavoro del cineasta di Detroit.
In the Tall Grass (questo il titolo internazionale) racconta infatti la storia di una donna incinta, Becky (Laysla De Oliveira) e di Cal (Avery Whitted), suo fratello. I due, mentre stanno attraversando gli Stati Uniti in macchina, si fermano davanti a un campo d’erba poiché sentono le urla di un bambino che cerca disperatamente aiuto. Una volta entrati in questo “labirinto”, faranno la conoscenza del padre del bambino, Ross (Patrick Wilson) e di sua moglie Natalie (Rachel Wilson), anche loro intrappolati nel campo. Il gruppo scoprirà presto che nel campo si nasconde una malvagia forza sovrannaturale.
Come ci ha “insegnato” il Festival di Venezia – e non solo – le produzioni cinematografiche di Netflix, quando realmente ambiziose e ben realizzate, non hanno nulla da invidiare ai film che nascono per avere una lunga vita in sala. Il problema, per il colosso americano, restano le produzioni “medie”, ovvero quei film senza star o nomi altisonanti alla regia, proprio come Nell’erba alta.
Il film di Natali infatti è veramente poco ambizioso e terribilmente “televisivo” nella messa in scena. Nell’erba alta è un’opera anonima, che cerca disperatamente di piacere a più pubblico possibile. Non ha un singolo momento spaventoso, ha un villain scritto male e ridicolo e toglie il piede dall’acceleratore persino nell’unica scena “gore” del film, la quale sembra uscita da una parodia più che da un film horror.
In questa operazione il nome di Vincenzo Natali e di Stephen King sono sfruttati più a fini di marketing che per intenti artistici: il talento dei due artisti non incide, tanto più perché gli eventi del film si discostano parecchio da quelli del racconto. E la sceneggiatura di Natali, che vorrebbe essere enigmatica e affascinante, finisce col diventare un puzzle frustrante al quale mancano dei pezzi. Sul finire del film, quando in teoria dovremmo arrivare alla comprensione dei fatti, ci accorgiamo della confusione del racconto.
Nell’erba alta è un film che esiste poiché dietro di esso si cela, seppur parzialmente, il nome di Stephen King. Un brand che ultimamente è esploso nel mondo della narrazione televisiva e cinematografica – basti citare i due It o i mediocri 1922 e Il gioco di Gerald, sempre prodotti da Netflix. Dispiace, ancora una volta, per Vincenzo Natali; un cineasta che da vent’anni ormai non riesce a dimostrare il proprio talento.