Venti minuti di paranoia pura: spazi claustrofobici, fuori campo oscuri e minacciosi, musiche noise che accompagnano i tormenti della mente. L’introduzione di Tito, scritto diretto e interpretato dalla giovane autrice canadese Grace Glowicki e presentato al Torino Film Festival nella sezione Afterhours, è un corridoio infernale, muto e solitario, che pare portarci direttamente nei dintorni dell’horror, materializzando fantasmi, paure e ossessioni.
L’inferno interiore di Tito
In realtà l’inferno è solo interiore, intimo e invisibile. Tito (interpretato al maschile dalla stessa Glowicki) è un ragazzo che vive isolato in una casa a due piani, veste sempre di nero e indossa al collo un fischietto da usare in caso di emergenza. Tito nasconde anche un passato traumatizzante che lo rende di fatto sociofobico, curvo sulle proprie ansie e angosce, impaurito di tutto, incapace perfino di fare la spesa per cibarsi. Tito si ritrova in cucina il vicino di casa John (Ben Petrie) geek strafatto, logorroico e apparentemente amichevole, che prova a spronarlo a reagire, a farsi un giro per strada e nel parco, magari ad uscire per cercare ragazze. Ma il rapporto fra i due cresce di morbosità e di inquietudine, fino a quando Tito sarà preda di una nuova implosione emotiva che farà emergerà quelle vecchie ferite mai davvero elaborate e superate.
Un veicolo della paranoia
All’ultimo South by Southwest in cui era stato presentato fuori concorso, Tito aveva vinto l’Adam Yauch Hörnblowér Award, il premio intitolato all’omonimo membro dei Beastie Boys che seleziona l’opera “più personale e meno conformista.” Da questo punto di vista il film della Glowicki è effettivamente un prodotto eccentrico e irripetibile, una visione impressionista, confinata e inviluppata nelle pulsioni fobiche del suo protagonista, con una sensazione di pericolo sempre dietro l’angolo. Se volessimo richiamare dei riferimenti, almeno estetici, dovremmo scomodare le atmosfere gothic-punk di Edward mani di forbici e il micro-universo visivo-sonoro di Under the Skin di Jonathan Glazer, di cui la Glowicki ha ammesso l’influenza, almeno nel modo in cui la soundtrack diventa essa stessa punteggiatura narrativa. E almeno nel primo atto, quanto in parte nel secondo, Tito funziona anche fin troppo bene come veicolo dell’irrequietezza e della paranoia, come messa in scena allucinante e allucinatoria della vita di una persona sovraesposta a un passato di abusi sessuali.
La riflessione sull’identità violata
Dall’altra parte l’intento della Glowicki è proprio quello di raccontare la perenne paura della preda sessuale interpretando come donna un ragazzo: “sentirsi come una preda non fa parte della mia identità naturale, ma in realtà ha origine nell’identità del predatore”, dichiara in un’intervista, quasi a voler identificare la radice stessa di questa ansia nell’identità maschile dell’abusante. Dunque l’abuso non viola soltanto il corpo ma la stessa identità sessuale e infatti per tutto il film non vediamo nemmeno una donna (la presenza femminile è sempre e continuamente fuori campo). Insomma, la proiezione del carnefice sulla vittima ne plasma il corpo e ne dirige le ossessioni e Tito diventa sorta di organismo geneticamente modificato dal trauma, che non trova via d’uscita se non quella di alienarsi emotivamente e sessualmente. E se il rapporto con l’amico John per Tito diventerà una scommessa per tornare a vivere e relazionarsi con il maschio (dentro e fuori di sé), presto anche questo si rivelerà come l’ennesimo incontro ravvicinato con tutta una serie di stereotipi fondamentalmente machisti in cui la fallocrazia prende il sopravvento (fin troppo evidente nella scena in cui i due si intrattengono davanti ad un videogioco pornografico).
Il problema per Tito (e per la Glowicki) è che questo impianto narrativo a un certo punto smette di funzionare: diventa parodia della parodia, alterna all’inquietudine involontarie scene grottesche, smarrisce i binari iniziali per finire in un vicolo cieco fin troppo presto (o fin troppo tardi). Se la Glowicki ha una buona l’intuizione di rappresentarsi come uomo in un film sugli uomini per trasmettere la paura dell’abuso da parte delle donne, alquanto deludente è lo sviluppo che finisce per ossificarsi frettolosamente, tradendo quell’atmosfera fatta di attese e di minacce che sono in fin dei conti la vera linfa vitale di tutto il film. Tito allora rimane un’opera monca, di quelle di cui si può apprezzare solo il punto di partenza e la loro ricerca “metodologica”, le interviste e gli approfondimenti a margine, l’esperienza personale e biografica dell’autrice. Fallisce invece come prodotto a sé stante, come universo filmico includente e non solo esclusivo, come opera capace di essere vissuta e non solo spiegata concettualmente.