Il cinema horror negli ultimi anni ha impostato la rigenerazione dei propri codici nella contaminazione con il politico e il sociale, tanto che questa new-wave del genere ormai viene definita post-horror. Questa urgenza artistica di utilizzare l’orrore e il fantastico come veicolo della realtà ha fatto breccia da un po’ di tempo in occidente ma ormai si registra questa tendenza anche in altrove (si pensi al Under the Shadow di Babak Anvari). Ecco, The Antenna di Orçun Behram, presentato al Torino Film Festival nella sezione Afterhours, è la conferma che questo riposizionamento dell’horror nel politico ha influenzato anche una cinematografia come quella turca.
L’antenna del governo
Che Behram ci stia portando dentro questo mondo un po’ futuristico e un po’ politico lo si capisce fin da subito,quando ci introduce al tema centrale (come da titolo): il governo ordina l’installazione di nuove antenne televisive nelle case di tutto il paese per connettere in un unico flusso informativo l’intera popolazione. Mehmet, custode e sovrintendente di un fatiscente complesso residenziale, deve supervisionare l’allacciamento dell’antenna al suo condominio ma qualcosa inizia ad andare storto: l’antennista muore cadendo rovinosamente dal tetto e oltretutto un misterioso liquido scuro inizia a sgorgare dai muri dello stabile. Mehmet si ritrova a fronteggiare questa entità minacciosa e invisibile mentre un’inquilina del palazzo decide che è venuto il momento di andarsene da casa e lasciare il paese.
Tra Cronenberg a Gilliam
In questa distopia dal sapore “antico” Behram inserisce tutta una serie di riferimenti al cinema occidentale: c’è il Cronenberg di Videodrome nella contaminazione fra uomo e tubo catodico; c’è il Terry Gilliam di Brazil nell’idea di regime conformista e tecnocratico; c’è il Matrix dei Wachowski e perché no anche l’High Rise di Ben Wheatley (e relativo romanzo di J. G. Ballard). Nonostante questo saccheggio di materiali e immaginari il giovane autore turco concentra tutto il film provando a riflettere sue due direttrici decisamente immanenti al suo paese: la prima è “democratura” di Erdogan di cui tutto l’impianto di The Antenna è un riflesso (fin troppo didascalico); la seconda è l’influenza dei media nella propaganda dei governi e di chi detiene il potere. Ecco allora che il liquido nero (ancora, Blob – Il fluido che uccide) diventa simbolo fin troppo esplicito della pervasività del regime erdoganiano e del suo diventare elemento contagioso, inevitabile ed onnipresente.
Un mondo oppresso e sorvegliato
Per trasmettere questo senso di un mondo oppresso, sorvegliato ed eterodiretto, Behram dirige tutto dentro una tavolozza blu-grigiastra, privilegia le ombre alle luci, gli spazi claustrofobici a quelli aperti, svuota i quadri di azioni frenetiche, di musiche e di movimenti di macchina. Al contrario mette in campo elementi statici, per certi versi ossessivi e dilatatissimi: e così The Antenna diventa un susseguirsi di inquadrature fisse che si alternano in campi larghi e corti, con inserti di lunghi tempi morti in cui gli unici protagonisti sono i dettagli di un corpo o di un viso. Il talento del turco c’è, ed è notevole sia nel suo gestire gli spazi della messa in scena sia in alcune idee di racconto visivo decisamente originali. Il vero problema è invece la sua incapacità di fare economia di questo talento, soprattutto quando estende le sequenze oltre il dovuto, quando diventa pedinamento estenuante del non necessario.
Se dunque da una parte un’idea coraggiosa per un cinema civile finisce contagiata da troppi immaginari e troppi simbolismi, dall’altra l’ottima tecnica che Behram mostra nel raccontarla finisce snaturata da un’autorialità ingombrante e invadente, forse perfino vanitosa. Ecco, forse il vero peccato di The Antenna è quello di voler accumulare sguardi e simboli senza una vera soluzione di continuità, quando giocando di riduzione avrebbe potuto uscirne come uno dei lavori più interessanti di questo Festival.