“Quando tutto è bianco e non puoi più vedere la differenza tra la terra e il cielo, i morti possono parlare con noi che siamo ancora vivi” la citazione anonima che apre A White, White Day, vincitore del Concorso al Torino Film Festival, è un primo indizio che qualcuno ci sta portando in un mondo sospeso e misterioso. Il secondo arriva quando rimaniamo dietro la scia di un’auto che percorre una bianchissima strada di campagna. L’auto sbanda, finisce fuori strada, sfonda il guard rail e precipita giù per la scogliera.
L’elaborazione del lutto
Il film del giovane Hlynur Pálmason, già presentato a Cannes e Toronto e poi selezionato dall’Islanda per i prossimi Oscar, inizia dunque con un incidente. Un incidente che è destinato a sconvolgere la vita di Ingimundur (Ingvar Eggert Sigurðsson), ex commissario di polizia adesso in congedo in un piccolo paese della costa islandese. Ingimundur in quella disgrazia ha perso la moglie e ora cerca di elaborare il lutto dividendosi fra sedute di analisi, lavori in casa e la compagnia della nipotina Salka (Ída Mekkín Hlynsdóttir) a cui dedica il suo tempo libero. Tutto bene (o quasi) fin quando Ingimundur non scopre qualcosa che rende il suo dolore ancora più insopportabile: un uomo del posto potrebbe aver avuto una relazione con sua moglie. Ingimundur sprofonderà lentamente in un calvario ancora più straziante e la sua ricerca della verità diventerà un’ossessione che lo porterà ad escogitare un piano per vendicarsi di tutte le ferite emerse.
Paesaggi esteriori e interiori
Di Pálmason avevamo sentito parlare nel 2017 quando esordì con Winter Brothers, opera sempre puntata su vicende familiari che molti però trovarono troppo subordinata a un’estetica potente ma poco emotiva. Con A White, White Day il regista islandese prova a rimediare, inserendo in un flusso visivo sempre rigoroso un approfondimento psicologico e umano. Non è un caso che Palmason decida di intrecciare le vicende del protagonista con il panorama circostante catturato nei piccoli dettagli: da un telefono che squilla alla traiettoria in discesa di un masso che rimbalza giù da una collina e precipita fin dentro un fiume. Dopotutto Pálmason proviene dalla videoarte e questa sua ossessione per gli oggetti è un elemento centrale della sua poetica. In questo modo paesaggi esteriori e interiori si parlano e comunicano, mentre una serie di presagi (come la bambina che sbatte il pesce contro il tavolo) preparano il terreno ad una violenza che è sempre strisciante, sottotraccia, pronta ad esplodere negli ultimi tesissimi venti minuti di film dove le tinte del noir acquistano le sfumature del thriller mentre un tunnel inghiotte (letteralmente) le pulsioni più oscure del protagonista.
A White, White Day: tormento e dissimulazione
In mezzo c’è sempre l’enigmatico e imponente Sigurdsson (qualcuno l’avrà già visto in Justice League) che è bravissimo nel diventare forza centripeta di queste tensioni. L’elaborazione del lutto, il dolore per la perdita, il collasso mentale e psicologico diventano, scena dopo scena, sempre più insostenibili e lancinanti; eppure Sigurdsson riesce a trasfigurare non solo l’angoscia ma anche la dissimulazione di questo tormento interiore. Le scene in cui Ingimundur si prende cura della nipote Salka sono forse il cuore pulsante del film, una divagazione spensierata e divertente che da una parte contrappesa la sofferenza, dall’altra accentua emozioni contrastanti e contraddittorie. Il terreno neutro di questo noir bianchissimo e algido, diventa allora uno scenario privilegiato per mettere in fila la propria vita, per guardarsi dentro e fuori, indietro ed avanti. In poche parole, per lasciarsi trascinare.
Che poi, sembra dirci Pálmason, la vita è piena di brutte ma anche di belle sorprese, è un flusso in una continua e disordinata evoluzione, imprevedibile, sia nel bene che nel male. Il risultato finale di A White, White Day, la sua vera forza, sta allora nelle piccole sfumature piuttosto che nel quadro generale: nella sua capacità di essere storia triste che diventa a tratti comica, spaventosa, commovente ed emozionante. Perché esposta a questa luce bianca, spietata e necessaria, la vita è destinata a brillare con tutti i suoi colori: apparenze e certezze, verità e bugie, rimorsi e rimpianti. Dopotutto, abbiamo davvero un’alternativa?