Da quel L’Imbalsamatore (2002) che ne ha definito la poetica fino al recente e meraviglioso Dogman, Matteo Garrone ci ha regalato una straordinaria galleria al contempo cupa, ispirata e folkloristica di personaggi quasi verghiani; uomini in caduta libera dopo aver provato a cambiare la propria condizione. E Garrone non solo è il miglior interprete della profonda provincia italiana, che ha dimostrato di saper ritrarre con asciutto pittoricismo passando dal Lazio al Veneto alla Campania, ma è anche un cineasta coraggioso che nel pur imperfetto Il Racconto dei Racconti ha voluto cimentarsi con le fiabe partenopee di Giambattista Basile: una scommessa fantasy che gli è costata cara (solo 5 milioni e mezzo di incassi mondiali tra theatrical e home video contro un costo stimato di oltre 20 milioni) ma che lo ha ancora una volta confermato tra i propulsori della nostra Settima Arte. Ora il suo Pinocchio, fedele adattamento del celeberrimo libro di Collodi, si colloca proprio nel solco di Tale of Tales, ma pur con molti pregi si rivela il film meno riuscito dell’intera filmografia del regista romano, almeno da quel lontano 2002 che segnò la sua svolta. Un passo falso dovuto probabilmente a un punto di vista troppo interno dell’autore, che per lavorare a una storia che lo ossessiona – parole sue – da quando aveva sei anni, non si è avvalso degli eccellenti co-sceneggiatori che lo hanno accompagnato per tutta la carriera (Massimo Gaudioso e Ugo Chiti), optando per la collaborazione con la penna decisamente meno virtuosa di Massimo Ceccherini (quel Massimo Ceccherini).
ROBERTO BENIGNI È TRA LE NOTE MIGLIORI DEL PINOCCHIO DI MATTEO GARRONE
Roberto Benigni, che con una mossa suicida decise di proporsi nelle vesti di Pinocchio nel suo famigerato film sul burattino, stavolta dà il volto a una versione particolarmente pauperista e riuscita di Geppetto. Imponendosi di gigioneggiare meno del solito, riesce a portare in vita con vibrante umanità e senza gran supporto da parte dello script la meravigliosa interpretazione di un uomo solo, consumato dalla vita e dalla povertà ma dignitoso, che ha come unica ricchezza l’amore verso il ‘figlio’. Lo sconosciuto Federico Ielapi, che interpreta il title character, fa ottimamente il proprio lavoro (cosa tutt’altro scontata quando si ha a che fare con attori così giovani), mentre Massimo Ceccherini – che come sceneggiatore contribuisce ad affossare il film – offre invece un’eccellente performance nei panni di Volpe, oscurando un Rocco Papaleo-Gatto che per copione si limita a fargli da eco. Ottimi i caratteristi che si alternano per qualche manciata di minuti nei vari camei (folgorante quello di Teco Celio nei panni del giudice gorilla, ma riuscitissima anche la Lumaca di Maria Pia Timo) mentre figure chiave del racconto non riescono a svettare come dovrebbero, inficiando non poco il risultato finale.
Se il Grillo Parlante giova dell’originale scelta di casting di Davide Marotta ma non certo delle sue doti attoriali, la Fata Turchina è penalizzata tanto dall’inesperienza e dalla dizione confusa della piccola Alida Baldari Calabria (la fata bambina) quanto da una certa algida legnosità di Marina Vacth (la fata adulta), per nulla aiutata da una sceneggiatura che seguendo pedissequamente il libro non si cura di dare alcuna motivazione alle sue azioni. Discorso a parte meritano il personaggio di Mangiafuoco e quello di Lucignolo, che colgono lo spirito del romanzo molto meglio di quanto non accadesse in ogni altra iterazione passata, ma la cui essenza rimane evidente solo a chi conosca a perfezione il libro e si perde in una messinscena poco chiara, facendoli risultare quindi cinematograficamente problematici.
CON IL GRILLO PARLANTE, LA FATA TURCHINA, MANGIAFUOCO E LUCIGNOLO EMERGONO I PROBLEMI DEL FILM
Il sempre immenso Gigi Proietti infatti, nei panni dell’imponente e barbuto burattinaio, si abbandona a irrealistici starnuti – degli «etcì» baritonali ma quasi naïf – preceduti da strane pause e sguardi: una scelta che potrebbe sembrare frutto di un’improbabile cattiva interpretazione del personaggio che siamo abituati a conoscere come «un omone (…) che metteva paura soltanto a guardarlo» e che pertanto ha un effetto straniante sulla visione, ma che in realtà è profondamente rispettosa di quello che Collodi dipingeva come il vezzo consapevolmente plateale di un uomo rude che voleva in qualche modo rendere partecipi gli altri del proprio animo gentile: «mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno (…) fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco (…) aveva il vizio di starnutire (…) per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore» – leggiamo nel libro. Peccato che l’intenzione di Garrone sia tutt’altro che chiara allo spettatore, e certo non per colpa del leggendario Proietti.
Allo stesso modo Lucignolo, il discolo che contribuisce a portare sulla cattiva strada Pinocchio, è un personaggio meno negativo del solito e fisicamente poco somigliante a quel segaligno Romeo dal «personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte». A ben vedere però il dolce e vispo viso tondo e imbronciato del piccolo interprete Alessio Di Domenicantonio è utile a raccontare la tenerezza di un bel rapporto di amicizia: come scrive Collodi infatti «Pinocchio (…) fra i suoi compagni di scuola ne aveva uno prediletto e carissimo (…) gli voleva un gran bene». La ricercatezza di un casting così attento però si perde ancora una volta tra le righe di un copione rabberciato che dà tutto per scontato e non trasforma l’intenzione narrativa in una dinamica chiaramente comprensibile.
A ben vedere infatti il problema principale di Pinocchio è proprio il fatto che, volendo essere fedele al testo originale del 1881/1883 (che pur avendo segnato per sempre la nostra Letteratura è tutt’altro che perfetto), non riesce a tradurne la natura meccanica ed episodica in un racconto cinematografico degno di tale nome. Non un problema da poco, bensì una debolezza strutturale e critica, capace di fare la differenza tra un bello e un brutto film.
RICORDARE LE ORIGINI DELLA STORIA DI FINE ‘800 PER CAPIRE IL FILM DI PINOCCHIO DEL 2019
La trama di Le Avventure di Pinocchio. Storia di un Burattino non ha certo bisogno di presentazioni: è praticamente scritta nel nostro DNA e, di generazione in generazione, ha rappresentato un punto saldo nella formazione scolastica e letteraria di ogni Italiano per quasi un secolo e mezzo. Il Pinocchio di Matteo Garrone risulta quindi naturalmente familiare, tanto più che non si tratta di una libera variazione su tema, ma – pur con qualche licenza – di quello che è forse il più fedele adattamento del libro del fiorentino Carlo Lorenzini (conosciuto col nome d’arte di Collodi, omaggio alla città natale della madre). Di certo però quello in uscita il 19 dicembre in circa 600 copie non è un adattamento riuscito, purtroppo, perché a uno spettatore che non conoscesse a menadito le vicende dell’iconica marionetta sembrerebbe una sarabanda di figure eccentriche che si succedono senza un grande nesso logico e con una blanda morale didascalica. Che è poi proprio ciò che è il libro d’origine.
In molti, col senno di poi, si sono prodotti in ardite interpretazioni provando a leggere nel romanzo una criptocristologia, una parabola esoterica o una metafora massonica. Benedetto Croce, uno tra gli infiniti estimatori d’eccezione, celebrò l’opera letteraria asserendo addirittura che «il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità». Se non vi sono dubbi sull’importanza di Pinocchio nell’immaginario italiano e mondiale, e sul suo incredibile successo editoriale, col tempo la critica ha assunto posizioni ben più caute nel giudicare nel merito quella che il suo stesso creatore sminuiva definendola «una bambinata». Lorenzini iniziò a infatti a scrivere svogliatamente le avventure del burattino nasuto come brevissime storielle da proporre di settimana in settimana su Il Giornale dei Bambini, un supplemento per l’infanzia del quotidiano Il Fanfulla. Ogni capitolo introduceva dal nulla figure capaci di colpire i piccoli lettori e – con grande modernità – finiva con quello che oggi chiameremmo un cliffhanger, ma il più delle volte quel che accadeva non aveva molto senso e i personaggi venivano riciclati alla bell’e meglio (si pensi al Grillo che prima infestava da oltre cent’anni la stanza del protagonista e poi riappare dal nulla come un dottore; o alla Fatina, che senza alcuna spiegazione dapprima è una bambina morta, poi è una fata bambina e poi una donna adulta).
PINOCCHIO DI COLLODI È UN CAPOLAVORO PROFONDAMENTE IMPERFETTO E IL FILM DI GARRONE NE RIPROPONE TUTTI I DIFETTI PEGGIORI
Lo scopo principale della scrittura di Collodi era inventarsi qualcosa per sbarcare il lunario per un’altra settimana: «se la stampi, pagamela bene, per farmi venire voglia di seguitarla», scriveva al direttore del giornale. Tant’è vero che la prima versione della storia doveva finire dopo 8 capitoli con la morte di Pinocchio impiccato, e che solo successivamente l’autore decise di sfruttare il successo della sua creatura allungando il brodo e riportandolo in vita. Oggi riconosciamo a Le Avventure di Pinocchio la capacità di aver per sempre cambiato la nostra cultura col suo incredibile potere iconografico: l’immagine del naso che si allunga con le bugie, quella dell’asino come sinonimo di bambino svogliato, e quella del Paese dei Balocchi come luogo illusoriamente meraviglioso, ma anche l’etichetta de “il Gatto e la Volpe” per definire un duo truffaldino e quella di “Grillo Parlante” per chi dispensa saggi consigli inascoltato, e addirittura i modi di dire “essere fritto” o “ridere a crepapelle”.
Non tutta farina del sacco di Collodi però, che come si è poi scoperto attinse a piene mani dall’altrui creatività. L’idea di un infante di legno parlante risale a vent’anni prima ed è presentata nel libro La Poupée Parlante di François Janet (e Collodi aveva di certo contatti con la letteratura infantile francese, curando le traduzioni delle favole di Perrault), mentre il naso lunghissimo, addirittura assediato da nuvolo di uccellini, è ricorrente in The Book of Nonsense dell’illustratore britannico trapiantato in Italia Edward Lear, coevo e – per un periodo – addirittura concittadino di Lorenzini. Il Gatto e la Volpe sono invece ovviamente una rilettura di un topos già presente in Esopo, Fedro, i fratelli Grimm, Perrault e La Fontaine.
Tutto questo per dire che anche un capolavoro della letteratura, un libro che è stato capace di travalicare le ambizioni del proprio autore e segnare per sempre la storia del mondo, può essere imperfetto, e che nel momento in cui Matteo Garrone e Massimo Ceccherini decidono di operare qualche minima sfrondatura, apportare un paio di idee ironiche e trasporlo pedissequamente da pagina a schermo, il risultato non può che essere un film in cui i personaggi sembrano calati dall’alto, senza motivazioni convincenti, senza un background e senza alcuna tridimensionalità; dove le cose accadono senza il minimo nesso logico e in cui non c’è l’ombra di una coerenza interna.
Il Cinema ha necessariamente una sua grammatica e raccontare una storia sul grande schermo richiede il rispetto di regole flessibili ma precise, che qui sono totalmente ignorate. Il risultato uccide ogni drammaturgia e dinamica evolutiva dei personaggi, risultando peraltro anche discretamente noioso. Finanche Tolstoj nel 1936 sentì il bisogno di riscrivere la storia di Pinocchio e adattarla a un formato più organico e consequenziale (La Piccola Chiave d’Oro o Le Avventure di Burattino); non si capisce come si possa pensare di prendere un racconto nato come un’improvvisazione a puntate su un giornale per bambini e farne un film senza cambiare quasi nulla. L’aiuto di Chiti e Gaudioso probabilmente sarebbe servito ad evitare proprio questo errore.
L’ASPETTO VISIONARIO: DOVE PINOCCHIO DI GARRONE ECCELLE SENZA COMPROMESSI
Nel XV capitolo del suo celeberrimo libro, Collodi introduce il personaggio della Fata Turchina come il cadavere di una bambina «con il viso bianco come un’immagine di cera, (…) con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto» e che parlando «senza muover punto le labbra (…) con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo» dichiara di esser morta. Nel suo film Garrone opta per la coraggiosa scelta di proporre per la fata millenaria proprio l’aspetto cianotico di una morta, e quel sottile trucco perturbante, insieme agli scoloriti boccoli turchesi (azzurro-verdi) e non turchini (cioè azzurro scuro), al fantasmatico e consunto abito bianco vittoriano e alla smorta ghirlanda di fiori sul capo dà al personaggio un fascino inquietante, che ben riassume l’approccio visionario dietro il film, vero punto di forza della pellicola.
Se infatti ogni adattamento di Pinocchio porta inevitabilmente con sé una forte componente fiabesca e favolistica, il film di Matteo Garrone recupera pienamente anche le sfumature meno rassicuranti e a tratti più oscure della storia. La Fata-cadavere è solo la punta dell’iceberg di un lavoro che colpisce sin dalla resa del burattino di legno vivente (una vera sfida tecnica) e che, soprattutto, valorizza nella chiave più realistica e al contempo immaginifica possibile l’antropomorfismo degli animali presenti nella storia, tanto che il Grillo Parlante, Gatto e Volpe, Lumaca, Corvo, il Can-barbone Medoro, Civetta e i Conigli Neri finiscono per comporre una straordinaria galleria di incarnazioni visivamente memorabili. In tanta eccellenza solo il tonno antropomorfo soffre di un design infelice e pare uscito da un b-movie: c’è un limite anche all’eccentricità.
Dietro al lavoro mozzafiato di messa in scena, a reificare la visione di Garrone vi sono gli inarrivabili talenti del concept artist Pietro Scola Di Mambro, del prosthetic make-up designer due volte premio Oscar Mark Coulier, dei costumi di Massimo Cantini Parrini e del trucco e parrucco di Dalia Colli e Francesco Pegoretti. Tutti nomi che meritano di essere citati, ripetuti e celebrati. Non sono da meno anche le meravigliose scenografie di Dimitri Capuani – in particolare la spettrale casa diruta e polverosa della Fata Turchina, la quale nel libro ricordava «in questa casa non c’è nessuno; sono tutti morti” – mentre sulla CGI della pellicola ci sarebbe molto da ridire.
In conclusione questo Pinocchio del 2019 è un’operazione filologicamente mirabile, che però mentre cerca di rispettare e rendere giustizia alle migliori sfumature dell’originale di Collodi cade rovinosamente vittima proprio dei limiti di quello che era un romanzo a puntate per bambini. Si ricaverà comunque un posto importante nell’ultracentenaria storia di questo grande racconto popolare, anche e soprattutto per la straordinaria componente visiva, ma rimarrà anche come il capitolo più debole nella filmografia del Garrone sceneggiatore.