Pasqualino Settebellezze, film di Lina Wertmüller del 1975, ricevette una straordinaria accoglienza internazionale nonché nomination ai Golden Globe, ai DGA e ben 4 candidature di peso agli Oscar, una delle quali costituì la prima nomination a una donna per la miglior regia. La Wertmüller non conquistò nessuno di quei premi, ma quel suo film che ora torna in edizione restaurata su blu-ray Mustang e CG Entertainment rimane un classico senza tempo, e alla luce della sua intensa e lunga carriera la grande regista italiana viene risarcita per quel ‘torto’ con il premio Oscar onorario alla 92a edizione degli Academy Awards, a quarantatré anni di distanza.
PASQUALINO SETTEBELLEZZE: STORIE DI CRUDO REALISMO PER UN GUAPPO PARTENOPEO
Pasqualino Settebellezze è sicuramente l’opera della Wermüller (qui regista e sceneggiatrice) che ha riscosso maggior successo a livello internazionale, costituendo un momento nevralgico per la carriera della regista italiana. Il film rappresenta il quarto di una lunga collaborazione con Giancarlo Giannini avviata nel 1972 con Mimì metallurgico ferito nell’onore.
Nella Napoli degli anni ’30, Pasqualino (Giancarlo Giannini) è un giovane dai toni e dallo stile fortemente partenopei che vive con sette donne: sua madre e le sue sorelle. Fra le stradine di Napoli, i conflitti e i delitti d’onore, l’esperienza della seconda guerra mondiale e dei campi di concentramento, quella di Pasqualino rappresenta – nel tempo della narrazione – l’acquisizione di una consapevolezza sulla vita ben più cruda e matura di quella di un giovane “guappo” partenopeo.
PASQUALINO, NAPOLI, IL FOLKLORE. ECO FELLINIANE E NEOREALISTE NELL’OPERA DI LINA WERTMÜLLER
Il film della Wertmüller è un prodotto suggestivo e multistrato, un intreccio narrativo possente che porta l’eco e le rimanenze di un neorealismo che, dagli anni ’50-’60 in poi inizia a declinarsi in forme differenziate. Un dato non indifferente dato che la stessa Wertmüller cresce in ambito cinematografico come aiuto-regista al fianco di Federico Fellini sul set de La dolce vita (1960) e di 8½(1963).
Lo sfondo del film è quello di un contesto sociale svantaggiato, ricco di folklore ma anche di arretratezza culturale e con personaggi sprovvisti di una consapevole e più ampia visione storico-politica: proprio in questa cornice si profila la figura di Pasqualino.
Mentre la seconda guerra mondiale incombe e la tensione politica interna al paese aumenta con l’ascesa di Mussolini, Pasqualino, con spavalda e stolta inconsapevolezza, pensa ai propri affari e a difendere l’onore delle sorelle, mentre è da tutte cercato e corteggiato per la sua (modesta) bellezza. Piace, ma non è bello e per questo lo chiamano “settebellezze”: proprio in queste affermazioni dal sapore fortemente forkloristico si scorge l’eco di quel realismo magico felliniano.
E se l’analisi del contesto geo-antropologico risulta essere una delle linee tematiche messe in gioco dalla Wertmüller – rispondente a delle micro-logiche quali delitti d’onore e passione, provincialismi di vario genere, e visioni ristrette dell’esistenza perché ancorate a piccole realtà – la morte è portatrice simbolica di un’altra linea tematica intrecciata e collaterale alla prima, ma per quella essenziale.
LA SOPRAVVIVENZA, L’ESTINZIONE E L’ARTE DEL FUNAMBOLO
Il momento in cui viene messo in atto il cambiamento nel protagonista – fino ad ora incosciente e sempliciotto – è il momento in cui Pasqualino commette un omicidio e lo fa, ancora una volta, con un senso d’ingenuità che lentamente inizia a plasmarsi, quando l’evento della morte (nella forma dell’omicidio) permette al reale di infrangere il muro di fantasia dietro il quale egli stesso vive; ciò emerge chiaramente con le inquadrature in primo piano che stringono sugli occhi terrorizzati e fortemente espressivi di Giannini.
Questo incontro traumatico con la morte innesca un processo che costringe Pasqualino Settebellezze a subire una serie di eventi che lo porteranno dal manicomio al fronte di guerra, fino al campo di concentramento. Eppure, queste apparenti e rocambolesche avventure donchisciottiane trascinano con sé una verità tragica: sopravvivenza ed estinzione combattono un’eterna lotta, mentre il protagonista è obbligato a fare il funambolo su quel sottile filo che le separa.
IL PASQUALINO DI GIANCARLO GIANNINI, CHE TIRA A CAMPA’
La sopravvivenza è un’arte: questo ha insegnato la bella Napoli al protagonista; ma quando Pasqualino vagabondava fra le stradine della sua città – e assimilava teoricamente quella lezione – ancora non aveva impattato la vita per mettere in pratica il principio.
Se dunque la realtà impone sopravvivenza, il punto è capire dove bisogna stare, perché di certo si sopravvive, ma lo si può fare in più modi: si può sopravvivere agli altri o si può sopravvivere per gli altri, questo dipende da che tipo di uomo si sceglie di essere. Ci si può ribellare, tentare di imprimere moralmente il proprio ricordo immortalandosi con un atto etico, oppure si può mercificare la coscienza: annientarla vendendosi. Così, la terrificante e sadica comandante del campo di concentramento gioca con la debolezza umana di Pasqualino, di un essere senza ideali disposto a darsi in tutto e per tutto pur si sopravvivere.
In una dimensione sociale e culturale in cui la potenza dell’idea soccombe al senso di sopravvivenza, in cui la legge naturale impone di continuare a vivere, allora Pasqualino non può far altro che subire: il manicomio e l’infermità mentale per sfuggire alla condanna di omicidio, l’arruolamento in guerra per sfuggire al manicomio, la vendita del proprio corpo e della propria coscienza alla comandante nazista per poter mangiare. Dove l’istinto prevale, la coscienza tace consumandosi in un ultimo atto di assassinio in cui Pasqualino giustizia il suo amato amico e compagno d’armi.
Segue il lieto ritorno a casa dell’eroe, ma senza amore. In Pasqualino Settebellezze domina solo la necessità di sopravvivenza di sé e della specie. Proliferare: questo è lo scopo! Nulla rimane – se non il vuoto consegnarsi all’istinto di conservazione – in quello spazio assegnato a un’umanità assente, in cui vige un unico motto, inciso sulle mura di un tempio sconsacrato: «Tira a campa’».