Dov’è il mio corpo (titolo originale J’ai perdu mon corps, titolo internazionale I Lost My Body), lungometraggio animato francese diretto da Jérémy Clapin distribuito a livello internazionale da Netflix, è un adattamento di grande spessore del romanzo di Guillaume Laurant Happy Hand. Il film è infatti riuscito ad ottenere una candidatura agli Oscar 2020, essendosi già aggiudicato tra gli altri il Gran Premio della Settimana Internazionale della Critica a Cannes 2019.
DOV’E IL MIO CORPO E LE DUE STORIE: QUELLA DI UN RAGAZZO E QUELLA DI UNA… MANO
La sceneggiatura del film sviluppa due linee narrative. La prima è quella di Hakim, ragazzo maghrebino in uno stato di isolamento emotivo da cui fuoriesce lentamente innamorandosi dell’avvenente Gabrielle. La seconda segue le avventure di una mano mozzata che, evadendo dall’obitorio, anela al ricongiungimento con il corpo dal quale è stata recisa.
L’IMMAGINE, IL SUONO E IL LINGUAGGIO
Il film ricalca pienamente il valore originario di un’immagine filmica e di una sonorità pulita che aprono lo spettatore a un effluvio di stimoli percettivi. Affidato completamente alla rappresentazione iconica, al suo tempo, al suo movimento e giocando sul ruolo delle percezioni ben condensate nell’utilizzo e nella personificazione della mano protagonista, il film di Clapin ripropone un’immagine cinematografica che possiede un’intenzionalità comunicativa, ma senza affidarla troppo alla blanda verbalizzazione.
L’utilizzo della struttura-corpo è il mezzo per rendere l’effetto, in un procedimento quasi meta-sensoriale che invita lo spettatore all’autocoscienza percettiva.
Così, l’animazione di J’ai perdu mon corps – immersa nelle musiche di Dan Levy – restituisce il valore della sensazione pura, invitando a riscoprire il cinema come ciò che “parla senza dire” utilizzando il linguaggio della corporeità.
IL CORPO FA DIRE ALLA COSCIENZA: «IO SONO»
Il corpo parla un suo linguaggio esprimendo emozioni: sguardi di gioia, tremori di paura; è il canale di comunicazione con il mondo: riceve dal mondo e dà al mondo, riceve dagli altri e dà agli altri. La mano – co-protagonista del film di Clapin – ha memoria, custodisce esperienza ed esistenza, evolvendo dal passato al presente; manifesta una sua coscienza, una propria identità che recupera dall’originaria unità con il corpo pur essendone separata.
La relazione della soggettività con la corporeità è rilanciata come strutturante, infatti è dalla percezione unitaria del corpo che deriva la prima percezione del sé, nella sua ricostruzione attraverso l’immagine riflessa (cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io, XVI Congresso internazionale di psicoanalisi, Zurigo, luglio 1949). Essere il proprio corpo, sentirlo come “uno” è il primo passo che sinonimizza coscienza e identità; perderne una parte è perdere una parte di sé, avvertire il senso di una frammentazione con il rischio che diventi psichica. Il corpo e la mano del film aspirano alla ricongiunzione, proprio come il sé aspira all’unità.
Per rendere questo, Clapin sceglie la mano come soggetto. Questa agisce, resiste, sopravvive e lo spettatore co-percepisce semplicemente in quanto “essere-senziente”. Un lavoro sul tatto per “sentire” l’immagine e questo pare essere lo scopo: far percepire l’impercepibile attraverso l’immaginazione, operando un’inconsueta rottura di quarta parete che garantisce un’immersione quadridimensionale.
L’AUT-AUT. ISOLAMENTO O LIBERTÀ ALLA LUCE DELLA PERDITA
Essere-nel-mondo è percepire con attenzione e Hanek non vuole farlo operando così una fuga per isolamento percettivo, affidandosi al rumore bianco, alla cadenza regolare della sonorità, alla diffusione e fluidificazione delle sensazioni. Così, le sequenze animate di Clapin riconsegnano una coscienza lacerata fra ricerca della percezione e isolamento emotivo.
Tuttavia, la coscienza-corpo non può non considerare ciò che dall’esterno il mondo impone alla percezione. Ed è proprio il “percepito” – come esperienza-vissuta – che solo venendo immagazzinato, ricordato (Hanek ha un’ossessione da bambino per la registrazione di tutti i suoni) può essere restituito. Ciò che è mantenuto diventa storia, esposizione dell’identità nella comunicazione intersoggettiva, mediante cui è possibile raccontare chi si è, narrando il proprio vissuto.
La mano-protagonista – che si rivelerà essere la mano di Hanek – trova il suo posto ricongiungendosi al proprio corpo, mentre il corpo smarrito di Hanek aspira alla ricomposizione somatica per conquistare l’unità psichica, nello slittamento dal corporeo al coscienziale. Così, nel finale è attuata la riunificazione dell’io grazie a un pericoloso salto di libertà che diviene possibile solo accettando la perdita di ciò che si è stato.