Quando nel 1995 Bad Boys uscì nelle sale statunitensi Will Smith era già in rampa di lancio grazie alla scia di successo che la serie televisiva Il Principe di Bel Air gli stava garantendo. A trovarsi di fronte ad un vero e proprio esordio era invece Michael Bay, che dopo un periodo di apprendistato e riconoscimenti tra spot pubblicitari e video musicali si avvicinava per la prima volta dietro la macchina da presa del mondo cinematografico. Il regista losangelino non avrebbe impiegato più di tanto ad attirare su di sé feroci critiche riguardo il suo stile considerato inutilmente frenetico e frivolo. Accuse queste dagli strascichi perenni culminate recentemente nel total brainless film-risposta 6 Underground (originale Netflix), che suona molto come la messa in pace degli attacchi mossi per oltre un ventennio ad un preciso marchio di fabbrica.
Rimane indubbio che Bay abbia sempre portato avanti la sua visione di cinema, a partire proprio dal suo film da debuttante, creando lo spartiacque tra chi lo apprezza e a chi fa schifo. Già venticinque anni fa Bad Boys portava con sé questa chirurgica concezione filmica, di un prodotto fatto di piccole lame taglienti all’insegna della spettacolarità e di un vortice inarrestabile di frame, con la tipica carica testosteronica (e lievemente misogina) di una pellicola d’azione anni ’90. Un film che davanti alla prova del tempo è invecchiato piuttosto male, che ha conosciuto però un sequel nel 2003 indubbiamente più maturo, Bad Boys II, con un Bay maggiormente consapevole e cosciente dei propri mezzi. A ritagliarsi dello spazio era una comicità genuina (seppur strettamente demenziale) ed un maggior respiro per qugli intermezzi narrativi che altro non erano che di riempimento tra un’esplosione ed un inseguimento al cardiopalma.
I detective Mike Lowrey e Marcus Burnett tornano sullo schermo senza Michael Bay
Ad un quarto di secolo da quel primo capitolo pompato di steroidi il duo composto da Mike Lowrey (Smith) e Marcus Burnett (Lawrence) torna sullo schermo, per la prima volta abbandonato dalla direzione di Michael Bay per passare sotto la regia di un altro duo, quello belga di Adil El Arbi e Bilal Fallah. Sarà rassicurante per i fan della saga sapere che troveranno in Bad Boys for Life una costola in diretta continuità stilistica ed espositiva con quell’universo-giostra denominato “Bayhem”, sapientemente dosato tra l’esplosione ad ogni costo e l’inevitabile sguardo ad un passato oramai lontano lontano.
Rimane chiaro che, giunti al terzo colpo, Bad Boys for Life si rivolge esclusivamente ad ammiratori storici che hanno affiancato le crescita e le disavventure dei due detective nel corso di tutti questi anni. Il solco in cui El Arbi e Fallah si inseriscono è cosciente di dover recuperare in toto quell’immaginario tanto di superficie quanto complesso, con la necessità di inscriverlo nella fase conclusiva (siamo sicuri?) della parabola. Per questa ragione si rivelano inevitabili alcune strizzate d’occhio ai film precedenti tra comparsate e citazioni registiche dirette, passando per le supercar rombanti che vanno a pescare anche venticinque anni indietro.
Bad Boys for Life tra passato ed eredità
Come si diceva, il tempo è però corso via per tutti ed il peso di un’età che avanza diviene il principale (ed inevitabile) vero nucleo tematico. Se da un lato Marcus diventa nonno ed assapora già i benefici di una meritata pensione, Mike non ha nessun nido familiare nel quale approdare ma si trova costretto a dover fronteggiare una minaccia che lo riguarda da vicino ed arriva dal passato (guarda caso). Diviene ben presto limpido che Bad Boys for Life fa perno sul discorso senile dell’eredità, quella acquisita ma sopra ogni cosa quella da lasciare ai posteri. L’unico terreno di confronto sul quale è possibile andare ad unire una trovata definitiva maturità (ci risulta difficile immaginare lo sfondo machista di Bad Boys nel 2020) alle smitragliate nel centro di Miami è l’ideologicamente rassicurante tema della famiglia, che forse per qualcuno all’interno della narrazione assumerà delle connotazioni atipiche.
E’ un film che trae la lezione da un Michael Bay che Bad Boys for Life probabilmente non sarebbe mai stato in grado di inquadrare del tutto lucidamente, che però allo stesso tempo ne conserva le declinazioni più riuscite dei predecessori. Il lavoro dei due belgi, che si appoggia allo script (sempre essenziale) di Joe Carnahan, Chris Bremner e Peter Craig, difatti ingrana maggiormente dopo i primi quaranta minuti che paiono essere di assestamento e di approccio alla materia. Arriva poi graduale la confidenza dei due registi, con l’efficace recupero di un demenziale sano e dello slapstick, ma soprattuto di una fisicità corporea che si fa sentire in scontri coreografati discretamente. C’è da dire anche che non siamo di fronte ad uno dei migliori prodotti action degli ultimi anni, che una volta smussato parzialmente di quella schizofrenica componente tipica di Bay perde in parte il potenziale della sua carica interna. Resta che il risucchio adrenalinico che conduce ad un finale di fuoco e fiamme (letteralmente, con una CGI da rivedere) funziona e colpisce nel segno.
Bad Boys for Life è pienamente cosciente di dove deve andare a parare e non lascerà certamente a bocca asciutta i fan di vecchia data di Mike e Marcus. Allo stesso tempo chi non è stato mai in grado di apprezzare lo stile di Michael Bay difficilmente troverà in questo nuovo capitolo una possibilità di avvicinamento al franchise. Nota alla visione: la Marvel insegna a guardare i titoli di coda. Il film è nelle sale a partire dal 20 febbraio.