Non c’è nessuna Dark Side diretto da Erik Negro, tra la selezione di pellicole del Rotterdam International Film Festival 2020 proposte da Festival Scope, si propone come un esperimento cinematografico, a tratti non passibile di giudizi di valore, quanto di una descrizione che possa far comprendere il senso di un apparentemente strambo montaggio e di un soggetto confusionario.
NON C’È NESSUNA DARK SIDE: UN ESPERIMENTO CINEMATOGRAFICO CHE PROPONE UN NON-SENSE STRUTTURATO
Il film, una produzione italiana (anche se si potrebbe parlare più di “manifattura”), ripercorre la storia di un gruppo di ragazzi appena usciti dal liceo e del loro percorso evolutivo, coprendo un arco temporale di 12 anni (2007-2019), sulla scia di Boyhood (2014) di Richard Linklater. Anni nei quali si incrociano persone, si visitano luoghi lontani, vicini, popolati, sperduti, si riprendono panorami notturni, viali autunnali lastricati di foglie, nonché porzioni di storia.
In questo procedere disordinato e insolito, che prende le mosse da una suggestiva ripresa della Luna, il corso e il senso della narrazione cambiano, affidando il tutto a un evidente, ma strutturato, nonsense cinematografico.
“OBIETTIVO DE-COSTRUZIONE”: COME STRAVOLGERE LA NARRAZIONE LINEARE CLASSICA
Dialoghi sporadici, riflessioni tanto arbitrarie quanto suggestive sulla politica, l’etica, la ricerca di sé, fotogrammi che si sovrappongono gli uni agli altri, volti di persone sconosciute che scorrono davanti la telecamera, anzi le videocamere e telecamere di vario genere utilizzate per le riprese del film.
Tutto questo è Non c’è nessuna dark side, un film sperimentale che non ha alcun ambizione di diventare un grande film, quanto un lavoro che decostruisce il valore della narrazione classica e il criterio dell’ordine. Non c’è un tema che percorra il film, non c’è cura del montaggio, della fotografia, non c’è una regia univoca, non c’è una sceneggiatura che costruisca un percorso narrativo stabile e coerente, ma solo un’animata e indistinta accozzaglia di immagini, suoni, dialoghi privi di connessione, ma affidati a una fluidità narrativa che destruttura senso e coerenza. Tuttavia, se il significato non viene impresso mediante una forma iniziale – attraverso un’idea che conduca per mano il film verso un atto scenico conclusivo, come si addice ad ogni sceneggiatura – pare che questo possa essere recuperato con un’operazione di lettura retrospettiva che procede dalla fine all’inizio, conferendo ordine.
Un esperimento che dice come l’immagine ripresa non sempre debba circoscrivere i fotogrammi in unità semantiche chiuse, in orizzonti definiti, ma anzi può catturare le essenze della realtà nella sua imponderabilità, nella sua mancanza di senso e fondamento, nella sua privazione narratologica.
LE NECESSITÀ DELL’ORDINE, LA NECESSITÀ DELLE STORIE
Narrazione e logos vanno, infatti, di pari passo. La storia è ciò che riporta a unità di senso l’esperienza ricucendola, incastrandola, immettendola su un binario che possa dare valore di identità, perché gli uomini hanno bisogno di storie per conferire ordine al caos persistente nel reale.
A questo può pensare l’immagine cinematografica, mettendo insieme e mostrando ciò che nella transitorietà del mondo si perde, ciò che viene obliato alla coscienza. Qui tenta la sua operazione Non c’è nessuna dark side, un prodotto in cui non solo il film si costruisce nel suo mostrarsi, nel suo prendere forma mentre il senso si plasma nel corso dell’opera stessa (non prima) – al pari di una pittura espressionista che ricorda le pennellate di Cezanne – non solo questo, ma è anche un esperimento che tramite la ripresa vuole riportare alla luce, senza lasciare nulla “al buio”. È una crisi del realismo, dell’esistenza oggettuale.
La videocamera cattura tutte le immagini possibili, le mette insieme, le sottopone alla vista e alla coscienza umana, evitando che lo scarto vada perduto. Nulla deve rimanere nascosto, l’immagine può catturarlo e mostrarlo in una sperimentazione-limite da cui emerge l’intrinseca impossibilità del film di poter essere un’opera facilmente fruibile: la confusione visiva e la durata eccessiva.
L’OCCHIO ARTIFICIALE CHE RIPORTA ALLA LUCE
Così, la videocamera, l’occhio artificiale, tenta di cogliere tutto e di restituirlo, cercando di compensare l’occhio umano fisiologicamente limitato nella percezione. Ancora una volta, la tecnica – nello specifico quella cinematografica – riesce a condurre l’uomo sul bordo del precipizio dove incontra il proprio limite percettivo, provocando un’ennesima crisi antropologica. L’immagine filmica diventa uno strumento per mettere in crisi e insieme compensare le carenze umane.
Se un albero cadendo in una foresta non fa rumore a meno che non vi sia qualcuno ad ascoltare, allora un oggetto non sottoposto alla luce dello sguardo non esiste. Questo antico dibattito sul realismo viene riproposto nel lavoro sperimentale di Non c’è nessuna dark side, che invece obbliga lo spettatore ad assistere anche a ciò che alla percezione non si mostra riportandolo all’esistenza, o meglio, riportando alla luce ciò che rischia di essere abbandonato al dark side.