Dopo anni nel giro del cinema indipendente, il nome dei fratelli Safdie ora è sulla bocca di tutti. I due registi, sceneggiatori, attori e montatori newyorkesi sono saliti alle luci della ribalta con lo splendido Diamanti Grezzi, loro ultimo lavoro che vede protagonista un inedito Adam Sandler (vittorioso agli Independent Spirit Awards per la sua prova). Distribuito fuori dagli Stati Uniti da Netflix e rilasciato in patria dalla A24 con un incasso prossimo ai 50 milioni di dollari, Uncut Gems (in originale) ha conosciuto un processo di realizzazione decennale, che ha finito per coinvolgere tra i produttori esecutivi addirittura Martin Scorsese, altro celeberrimo nativo della Grande Mela.
In questa decade si sono avvicendati molti altri progetti per i Safdie e la loro casa di produzione Elara Pictures, a partire dal banco di prova di Good Time. Film del 2017 creato ad hoc sulla pelle del protagonista Robert Pattinson (interessatosi in prima persona alla realizzazione) con un esiguo ritorno al botteghino di circa 2 milioni di dollari, la pellicola presenta tutti quei tòpoi che dopo due produzioni di calibro già sono divenuti marca stilistica dei registi.
Good Time dei Safdie Brothers è un racconto circolare tra neon e caos
Il prologo è folgorante e, scopriremo, direttamente collegato ad un epilogo che rende chiara la misura circolare dell’opera, dove Benny Safdie si trova anche ad affiancare con una performance struggente un Pattinson che definire magnetico sarebbe riduttivo (è un crimine dubitare ancora delle capacità attoriali di questo ragazzo). Quello che firmano Ronald Bronstein e Josh Safdie è uno script allucinogeno che narra di un serpente che morde la propria coda nel tentativo di rimediare ad un’azione da lui stesso compiuta. Dopo una rapina organizzata da suo fratello Connie (Pattinson), qualcosa va storto e Nick (Safdie) finisce in prigione. Da qui la corsa contro il tempo di Connie per tirar fuori da dietro le sbarre il fratello ritardato, nel frattempo trasferito in ospedale a seguito di un pestaggio.
L’anima di Good Time è da rintracciare sin nella prima inquadratura con zoom-in su di un palazzo ad isolare una cellula di quella New York che non è solamente involucro della storia, ma sostanza amniotica del racconto. Non è la città tra i suoi neon e la sua carnale umanità che contiene i personaggi, ma sono questi che entrano in scena e accelerano nei bordi della sfera urbana talvolta schizzando via come schegge. Sembra uno specchio infranto in terra e tagliente quello di Good Time, dove ogni singolo frammento riflette caricature di uomini e di donne improvvisatisi attori del loro proprio destino. Ognuno trova il suo posto per breve tempo in quella che non è altro che una pantomima del caos ad opera di una spietata macina cittadina fatta di acciaio e cemento.
Good Time mette in scena in modo vivido il concetto stesso di entropia, di una rincorsa presa da lontano e il quale slancio non porta da nessuna parte. Una caduta libera accelerata da eventi ingigantiti a valanga e perennemente oltre la capacità di gestione di chi ci si ritrova nel bel mezzo. Il punto di arrivo, che poi non è altro che la ricerca del ritorno ad un precario status quo, sembra essere ogni volta ad un passo ed ogni volta si sposta un po’ più in là. Intanto New York rimane lì, come inafferrabile costante volta a suscitare un’eterna fascinazione sulle povere anime che vi scivolano attorno (e mai realmente dentro) e finiscono per essere solamente dannate sotto la sua ombra.
Sonorità sperimentali e regia sfrontata: prima di Diamanti Grezzi
L’affresco di questo secondo lungometraggio dei due fratelli è l’embrione sotto acidi di ciò che sarà poi Diamanti Grezzi, fatto sì di dialoghi stretti, serrati, incrociati ma ancora in grado di potersi permettere un respiro prima del ‘tracollo’ emotivo definitivo. Anche qui c’è la colonna sonora sperimentale (fondamentale e vincitrice a Cannes nel 2017) di Oneohtrix Point Never ad estendere un dinamismo incontrollato e ad aggiungere quel quid etereo a tutto ciò che scorre davanti agli occhi. Il suono è un brusio che si insinua dietro le tempie e non molla nemmeno per un istante, divenendo il collante (e misura) della fibra visiva del film.
I Safdie lavorano con una costruzione trasversale del linguaggio filmico, penetrando nei fantocci della storia con close-up invadenti e sfrontati, inquadrature-gabbia volte a ricordare che da quei frame non si scappa, non c’è esito e non c’è catarsi. I due non si limitano a raccontare per immagini ma attraverso le aberrazioni cromatiche ed uditive vogliono permeare anche i non detti e l’intreccio tutto. C’è sostanza nella forma ed è questa a fare da spina dorsale della pellicola, che arriva a sfiorare il tossico per rilasciare, infine, un antidoto che fa calare la stasi sugli eventi.
Good Time è una visione obbligata per poter meglio comprendere le radici del delirio ossessivo-compulsivo di Diamanti Grezzi, ma soprattutto consigliata per continuare a scoprire lo straordinario talento di questo giovane duo newyorkese. Il film, tra l’altro, è disponibile in streaming su Netflix.