“Lei è qui ora o è da un’altra parte?”. Dov’è Luca Tufano, giovanissimo studente di un rigido istituto alberghiero di Domodossola? È qui, incolonnato tra le mura di questa struttura austera e fuori (dal) tempo, o lì fuori, tra le fronde degli alberi che compaiono come pennellate veloci tra le cornici delle finestre? Ne L’apprendistato (The Young Observant), passato alla 72esima edizione del Locarno Film Festival e successivamente vincitore del Premio della giuria nella selezione Italiana.doc al 37esimo Torino Film Festival, Davide Maldi pone queste domande con un’opera a cavallo tra documentario e fiction.
L’Apprendistato di Davide Maldi, tra realtà e finzione
Lo scarto tra ciò che è reale (studenti, professori, istituto) e ciò che è canovaccio è sottile quanto netto, e si trova in alcune movenze, in alcuni sguardi fugaci che schizzano via alla ricerca dell’impulso salvo poi tornare subito lì, alle indicazioni della mdp. Incredibile il lavoro di Maldi che in questo (finto) regolamentare la realtà stimola solamente un’espressione profonda ed intima pronta a montare in quelle minime, ma macroscopiche, zone d’ombra. Il regista romano punzecchia con un gioco di scatole cinesi tra rigidità della scuola e del copione i ragazzi soggetti-oggetti sullo schermo, in un’azione di inquadramento atta a riflettere gli spigoli di un ipercinetico quattordicenne Tufano, mai preciso, mai puntuale, mai presente davvero davanti a noi.
Il discorso più importante è di fatti quello sulla presenza, ma della presenza di una consapevolezza di sé stessi e di ciò che si è. L’apprendistato trae la sua unica e grande lezione dalla fisica aristotelica e dalla teoria dei luoghi naturali, secondo la quale un elemento della materia trascinato via dal luogo di appartenenza troverà, prima o poi, il modo di tornarvi. Perché è unicamente in quel posto che trova il suo senso, la sua compiutezza espressiva. Quindi dov’è Luca Tufano? Di certo non lì, tra quelle mura delle quali percepiamo l’odore tipico di un’epoca passata, tra quei tavoli apparecchiati con chirurgica precisione geometrica da mani coperte da vellutati ed asettici guanti bianchi.
L’apprendistato, un film che riflette sul senso di appartenenza
Forse non dovrebbe stare nemmeno tra le persone il giovane Tufano, lo annoiano, non riesce ad apprezzarle perché con loro non riesce ad avere dialogo. Alla fine, probabilmente, è semplicemente di un’altra razza, di quelle che non trovano comunicazione nel vocabolo, piuttosto nell’adesione al tangibile, nel contatto, meglio ancora nell’impatto. Quando di notte fugge dalla sua camera per vagabondare (in un momento che fa molto Harry Potter) tra stanze dimenticate dell’istituto, il ragazzo trova dei grotteschi animali impagliati e sopra le ombre proiettate dalla lanterna sul muro un sound-over naturalistico ci dice, infine, chi sia in realtà quello studente selvaggio e genuinamente primitivo.
L’apprendistato raggiunge un lodevole equilibrio su quel confine che separa il reale dal costrutto filmico. Sfrutta proprio lo slancio offerto da quest’ultimo per porre l’accento su quei costrutti che non sono altro che parte integrante di schemi sociali che riconducono, indiscriminatamente, al loro interno nature di ogni tipo, a volte anche le più indomabili ed immeritatamente circoscritte. In sala dal 7 marzo con Movieday.