Personal Shopper (2017) di Olivier Assayas e con Kristen Steward è tra quei film ingiustamente poco conosciuti, ma che per ricchezza di significato, eleganza della forma e genialità dell’intuizione iniziale meriterebbero di esser visti da ogni appassionato di cinema che si rispetti. Se la ‘reclusione’ forzata a causa del Coronavirus ci offre (purtroppo) l’opportunità di scoprire e riscoprire qualche grande titolo degli ultimi anni, questa suggestiva storia di fantasmi premiata per la Miglior Regia al 69° Festival di Cannes non può quindi che essere nella lista dei film da vedere durante la quarantena. Una pellicola profetica che, vista nel terribile momento storico in cui siamo prigionieri delle nostre case mentre migliaia di nostri connazionali devono affrontare lo spettro della morte, potrebbe quasi rappresentare la quintessenza dell’epoca del Coronavirus.
La schiva Maureen (una bravissima Kristen Stewart) lavora come personal shopper per una celebrità parigina, ma ha un ‘dono’ che condiziona la sua vita: è in grado di percepire presenze dall’aldilà. Le sue capacità medianiche ora hanno risvolti molto personali: suo fratello gemello è morto da poco per una malformazione cardiaca da cui anche lei è affetta, e prima di lasciarsi la vita parigina alle spalle e trasferirsi in Oman da un compagno che vede solo in videochiamata, vuole stabilire un ultimo contatto con il caro estinto per salutarlo ancora una volta. A turbarla però non è tanto l’incontro poco pacifico con lo spirito di una donna, ma degli sms che le arrivano costantemente da un mittente irrintracciabile.
Personal Shopper: una ghost story unica e profonda
Personal Shopper è una riflessione straordinaria ed elegantissima su quello che siamo e non siamo, che si presta a una molteplicità di letture. Olivier Assayas firma infatti una pellicola di raro coraggio e bellezza, ammiccante ma ermetica, che vuole sfuggire a ogni definizione e usa spunti horror in un contesto che con l’horror non ha nulla a che fare. I fantasmi sono un dato di fatto in un universo narrativo che si muove su un piano autoriale in cui la metafisica è uno dei molteplici colori sulla tavolozza del regista. Il cuore della narrazione è la protagonista; la vita e la morte sono solo terreni in cui muoversi.
L’impatto del web nel nostro quotidiano non è mai stato raccontato in modo così vero
La genialità del francese, che oltre alla regia firma la sceneggiatura, sta nel ragionare su ogni possibile implicazione del termine ‘fantasma’. La tecnologia è onnipresente nel film, ed è proprio come la vediamo nella vita quotidiana: si fanno frequenti ricerche online, ci si scrive continuamente attraverso lo smartphone e ci si vede su Skype. In questo senso probabilmente nessun film prima di Personal Shopper è riuscito a descrivere tanto vividamente l’impatto del web sulle nostre vite quotidiane: se nell’esistenza di tutti i giorni è più frequente comunicare online che parlarci, lo stesso accade anche nella pellicola. Se poi pensiamo a come i nostri rapporti sociali all’epoca del Coronavirus siano mediati praticamente solo dalla tecnologia e a come in questo periodo lo spettro della morte aleggi nell’aria, gli spunti offerti dalla storia diventano la quintessenza dell’attualità.
Cos’è il metafisico, se internet e la tecnologia ci trasformano tutti in ‘spettri’ incorporei?
Un interminabile scambio di sms, alternato dall’inserimento della modalità aeroplano sul telefono, è il cuore di un segmento della pellicola tanto lungo quanto ricco di tensione, che ci incolla allo schermo del cinema e a quello dell’iPhone della protagonista.
La presenza di ombre dall’aldilà sembra una certezza nel film, anche se a visione terminata vi renderete conto che di certezze il film non ne offre, ma quel che sembra suggerirci Assayas è che le ombre siamo noi stessi; d’altronde Maureen vede i fantasmi ma non sa se credere nell’aldilà. La comunicazione in remoto, la presenza digitale e impalpabile di ognuno di noi nelle vite di ‘amici’ vicini e lontani, ci rende tutti ‘spiriti’: presenze prevalentemente incorporee e distanti che però hanno un impatto reale sull’esistenza di coloro che contattano.
Sociologia a parte, Personal Shopper è anche un racconto dell’orrore straordinariamente originale
Che il genere horror si regga sui cliché non è certo cosa nuova, eppure, incredibilmente, negli ultimi anni sono molti gli autori che riescono a proporre un taglio fresco e originale di una ghost story. Assayas, raccontando di una ragazza che lavora nel glam ma si asserraglia struccata dietro felpe oversize, che pur percependo i morti non fa la spiritista ma si occupa di fare acquisti in boutique d’alta moda, si produce in un gioco di prestigio straordinario che stravolge ogni equilibrio, arricchisce di una rara concretezza il contesto narrativo e ci tiene lontani da ogni insistita morbosità tipica dei film di paura. Come se non bastasse, la spada di Damocle della malformazione congenita al cuore – spunto poco più che accennato – ci offre un’ulteriore chiave di lettura simbolica del suo personaggio: una ragazza che non può non avvertire la morte come una presenza costante e spesso indesiderata.
Lo straordinario lavoro di Assayas è un bisbiglio suadente che distinguiamo appena, una fotografia perfettamente a fuoco non di una, ma di molte verità. Non ha interesse a dare risposte ma a stimolare domande, e forse questo pregio più di ogni altro è indice dell’immensa statura di un regista lontano dagli stereotipi.