Di Guy Ritchie abbiamo sentito troppo a lungo la mancanza. Parliamo del Ritchie più vero, del più genuino, perché considerare tale il regista britannico degli ultimi anni risulta complicato. A partire da Operation U.N.C.L.E. (2015) fino alla parentesi senza arte ne parte di Aladdin (2019), passando per il tentativo di esplorazione del fantasy con King Arthur (riuscito solo a metà, 2017), sembravano oramai lontani i fasti gloriosi dei due Sherlock Holmes e del suo caratteristico gangster-noir movie fatto di frenesia e pittoreschi affreschi della criminalità londinese.
Ecco che con The Gentlemen Ritchie fa una parziale inversione di marcia e torna dritto nella capitale inglese, riacciuffando per i capelli il suo stile che qui ritroviamo però definitivamente mutato nelle sue parti. L’ultimo film, che scrive, dirige e produce, si ricopre dal primo istante di un vestito su misura sfacciatamente british, quasi ad assicurarsi di martellare sulle tempie per far passare il concetto che è tornato proprio lì, di nuovo a casa. Carica poi sul carro un cast stellare che non attinge dal passato e che gli permette di firmare un successo commerciale che al botteghino parziale pre Covid-19 sfiora i 120 milioni di dollari di incasso (a fronte di un budget tutto sommato esiguo di circa 20 milioni).
La forza di The Gentlemen sono i suoi personaggi
Eppure qualcosa appare sin da subito fuori posto, forse un po’ stanco, incurvato dal peso di una rivalsa che doveva arrivare ad ogni costo e che in questa pellicola necessitava di trovare l’arco di congiunzione con i classici che hanno fatto la fortuna del regista nei primi anni del secolo. Il problema non è che The Gentlemen non trovi la sua forma o che non sia in grado di vivere da entità a sé, piuttosto che ne esca fuori depotenziato rispetto ad uno stile consolidato e poi perduto. L’intero film si regge sostanzialmente sulla forza dei personaggi, vivaci illustrazioni da manoscritto rinascimentale che trovano energia in una narrazione estremamente verbosa (molto più che in passato) ad opera dello “storyteller” d’eccezione Hugh Grant, il cui duetto serrato con Charlie Hunnam accompagna il filo logico del racconto e tutto sommato funziona.
Così come è squisitamente confezionata l’intera girandola di questo microcosmo criminale in cerca di compratore, dal gangster-non-gangster Matthew McConaughey in profumo di ritiro dalla sua milionaria attività di produttore d’erba, al “coach” Colin Farrell che colleziona un minutaggio ridotto ma si rivela come il più fulminante del gruppo. Molti altri ce ne sarebbero da nominare (Michelle Dockery, Henry Golding) ed è proprio qui la principale difficoltà di fronte alla quale The Gentlemen pone, dove si inerpica in intrecci ed accavallamenti così come avveniva in passato, ma dai quali incastri narrativi e dalle convergenze dei personaggi questa volta sembra venire fuori con un eccessivo sforzo di meningi ed un inaspettato risparmio muscolare.
Guy Ritchie privo della sua caratteristica verve registica
È una danza sui bordi dove si affacciano maschere che nella “coolness” di una raffinata ricerca costumistica tipicamente britannica (a cura di Michael Wilkinson) esplicano tutti loro stessi, rimanendo però totalmente orfani di quella verve che Ritchie era solito infondere all’interno delle sue narrazioni tramite il suo sfrenato tocco registico. Manca lo slancio, lo strappo (“Snatch”) e sul lungo andare lo si nota sempre di più. Si percepisce quel roteare maggiormente di forza centrifuga piuttosto che centripeta che priva una tavola riccamente apparecchiata della portata principale la quale finisce per non arrivare mai.
Il carattere di The Gentlemen è costruito (in modo raffinato) sull’alone che lo avvolge, interessante da analizzare anche nell’ottica di un rinnovato occhio stilistico tra contaminazioni mediali da videoclip ed inserti televisivi fino ad alcune non troppo velate autocitazioni. La ballata che mette davanti la macchina da presa però non affonda mai il colpo e in definitiva ne soffre l’offerta ludica che le produzioni più riuscite del regista sono sempre state in grado di offrire e porre a cardine del loro variopinto carosello.
Così come è costruito (e sciupato) nei dettagli e nella curatissima mise-en-scène, il film lascia quasi l’idea che questa formula Ritchie 2.0 possa trovare efficace sfogo in una serialità a cavallo tra autore e genere, dove in accordo ad un gusto mutato nel corso degli anni (del pubblico e del creatore) il tipico cosmo compresso del regista riuscirebbe ad esplodere con nuovi tempi e nuove tonalità di colore. E soprattutto, con una nuova, necessaria boccata d’ossigeno. Chissà che non sia davvero questo il suo futuro.