Freud, serie-tv in otto puntate prodotta e distribuita da Netflix è stata lanciata sulla piattaforma streaming il 23 Marzo 2020. Nel cast figurano attori semi-sconosciuti quali Robert Finster, Ella Rumpf, Georg Friederich e Rainer Bock sotto la regia di Marvin Ken (anche tra gli ideatori e sceneggiatori della serie).
FREUD: SU NETFLIX IPNOSI E OMICIDI NELLA VIENNA DELL’800
Il dott. Sigmund Freud (Robert Finster) – nel suo approccio al metodo ipnotico – inizia a muovere i primi passi verso la scoperta di una dimensione psichica inconscia destinata a lasciare un segno della comunità scientifica di medici e psicologi. La cornice è una Vienna di fine ‘800, in cui prendono scena una serie di strani e inspiegabili eventi riconducibili a fenomeni paranormali. Ad intrecciarsi, saranno le indagini del dott. Freud, dell’ispettore di polizia Alfred Kiss (Georg Friedrich) e della sensitiva Fleur Salomè (Ella Rumpf), sullo sfondo impervio dei movimenti irredentisti ungheresi e dello sconvolgimento che di lì a poco la psicoanalisi avrebbe portato alla cultura otto-novecentesca.
L’ECCESSO DI ARTIFICIO ROMPE LA LINEARITÀ NARRATIVA
La serie offre un volto nuovo al noto fondatore della psicoanalisi, con un certo numero di inesattezze storiche e abusi di artificio horror-thriller, e per questo genere, infatti, bastava e avanzava L’Alienista (sempre distribuito da Netflix nel 2018). Se ne sono viste tante di storie che assumono come sfondo gli insalubri vicoli delle città ottocentesche, dove spesso gli assassini compiono i loro omicidi indisturbati, nei sobborghi di città annerite dal fumo delle fabbriche, disorganizzate e ingestibili, frutto di assenza di piani urbanistici strutturali (primo fra tutti From Hell degli Hughes, 2001).
Infatti, per questa serie sarebbe stato meglio pensare ad altro. Ci sono alcuni aspetti che funzionano perfettamente a livello di sceneggiatura, ma che di fatto non mostrano attinenza con quello che dovrebbe essere il protagonista, creando una sequenza di intrecci narrativi validi, ma spesso fin troppo sovrapposti con relative forzature di trama assolutamente evitabili.
…C’È DELLA FOLLIA IN QUESTO METODO
È comprensibile l’idea di partire dal “paranormale” per legittimare in senso psicoanalitico tutto quel mondo fatto di credenze, superstizioni, leggende popolari che costituiscono un materiale di partenza imprescindibile per la “via del largo” intrapresa dalla psicoanalisi. In fondo, anche qui sta la grande intuizione di Freud: sganciare la psicologia dalla sua mera appartenenza alle scienze della natura per ancorarla ai contenuti delle scienze dello spirito; per cui le forme del culto, le tradizioni dei popoli, le loro venerazioni ed espressioni artistiche diventano un bagaglio funzionale alla comprensione di determinati meccanismi psichici, nonché alla determinazione dell’istanza inconscia e delle sue turbolente manifestazioni. In qualche modo c’è della follia in questo metodo freudiano.
Forse, però, Marvin Ken ha un po’ troppo puntato sul sensazionalismo, quando si poteva benissimo operare su un’unica linea narrativa del conflitto tra Freud e la comunità scientifica (con conseguente nascita della psicoanalisi) per garantire una serie di effetto e attinente con i fatti storici ed ermeneutici in riferimento al contesto e ai modi in cui la psicoanalisi è venuta affermandosi. Di questo ne esistono prove tangibili in alcuni classici come Freud-Le passioni segrete (John Huston, 1962) o A Dangerous Method (David Cronenberg, 2011).
Tuttavia, la “caccia al sensazionalismo” – mediante l’utilizzo illegittimo di un paranormale che avvicina la serie più a Jung che a Freud – snatura il senso di quello che a monte pareva essere un buon soggetto.
BENE, MA NON BENISSIMO: HIC SUNT DRACONES!
Questo non significa che la serie non sia fruibile, anzi funziona discretamente (nonostante la monotonia della colonna sonora e una sigla che combina elementi della Casa di carta e Dottor House), ma l’eccesso delle linee narrative fa perdere di vista il senso. Bene è resa la figura di Freud, le sue relazioni altalenanti con la famiglia e con il suo lavoro, e buona l’interpretazione di Foster; molto interessante l’idea del conflitto morale (e quindi intrapsichico) dell’ispettore di polizia; buona l’idea del thriller e questo sarebbe bastato: elementi semplici, calibrati, essenziali. Per cui l’aggiunta della lotta per l’indipendentismo ungherese – a sua volta legato a rituali oscuri – e i fenomeni da ipnotismo, che diventano quasi una gara di magia, si sarebbero potuti evitare o magari svilupparli in una seconda stagione.
Poco realismo e addensamento narrativo generano un’ipertrofia dell’immaginazione che – rispetto all’aspettativa del pubblico – potrebbe rischiare di rasentare il ridicolo, anche se si tratta di un tema così delicato come gli esordi della psicoanalisi che, di fatto, allora generò lo stesso tipo di sconcerto che nello spettatore esperto produce la perturbante serie su Freud.
A volte è necessario esercitare cautela, per cui l’identità in cui si definisce e chiude il significato di una narrazione può rischiare di diventare trasduttiva se esce troppo fuori dal binari del reale, fosse anche per eccesso di immaginazione, tanto da generare qualche delusione e un po’ di sconcerto, soprattutto quando si va ad ideare un soggetto di tale stile. Nello specifico, in questi casi – in cui si coniugano nella narrazione i registri dell’immaginario e del Reale – per evitare di trasbordare, sul copione è sempre utile appuntarsi: “Hic sunt dracones”, motto ben noto al venerabile Freud.