Non c’è altro luogo dove Hollywood di Ryan Murphy possa muovere i suoi primi passi se non all’interno di una sala cinematografica mentre la luce del proiettore squarcia il buio e proietta immagini in movimento su di uno schermo alto più di dieci metri. Materia esperienziale di un atto, quello del sederci a centinaia su delle poltroncine in silenzio ed assorti, che ha conosciuto e conoscerà sempre alti e bassi ma non declinerà mai perché dal valore imprescindibile e, per molti, necessario.
La sala, un luogo imponente, una camera oscura che è fabbrica di illusioni intangibili ma allo stesso tempo così estremamente vivide nella testa, e nel cuore, di chi sceglie di scendere a patti con un sogno che lo avvolge da sveglio. Quantomeno curioso che a catturare questo carattere onirico sia una serie tv approdata in streaming su Netflix, il contendente negli ultimi anni più accusato di voler spazzare via quel vivere comune e con il quale Ryan Murphy (assieme ad Ian Brennan) collabora per una seconda volta dopo The Politician.
Ed è tra le maglie di uno sconfinato catalogo che il già autore di Glee incastona l’enorme ed ucronico “what if?” che è a cardine di Hollywood. Voglioso non tanto di riscrivere o, peggio ancora, elidere uno specifico corso della storia, bensì di poterlo rammentare con ancor più forza (e dolore?) semplicemente curvandolo in alcune sue parti perché vadano ad imboccare, in nome del sogno, un altro sentiero.
Hollywood e la Golden Age del cinema statunitense nella nuova serie Netflix
“Questo è il mondo in cui viviamo”, quello di una Los Angeles in piena ascesa nell’immediato dopo guerra a seguito della vittoria degli Stati Uniti nella WW2, dove il sole bagna ogni singolo frame ed i veterani faticano a reintegrarsi nel mondo lavorativo. Mentre in Italia nasce e tramonta il neorealismo, ad Hollywood a farla da padrona è lo strapotere degli studios, macchine industriali complesse e dagli ingranaggi perfettamente oliati, fulcro di quella che è considerata la Golden Age della storia del cinema statunitense.
È l’era dei contratti che vincolano gli artisti per lunghi periodi di tempo, che talvolta schiacciano e comprimono le carriere di attori che sorgono e si bruciano nel giro di un solo film. L’era degli agenti che acquisiscono sempre maggior potere di trattativa all’interno di quello spietato tritacarne che è lo show business. È anche l’era del cosiddetto Codice Hays, l’infame Production Code che fino al 1967 dettò le linee guida alle quali si sarebbero dovuti attenere i produttori durante la realizzazione dei propri film, evitando di creare smottamenti ad una prestabilita condotta morale ipocrita e di facciata. A sua volta, è un’era dove neri e gay sono ‘oggetti indesiderati’ all’interno delle pellicole hollywoodiane, dove i primi possono aspirare tuttalpiù a ruoli di sfondo umilianti e razzisti ed i secondi vengono, al massimo, perseguiti dalla legge e costretti a mentire nella vita di tutti i giorni.
Ryan Murphy ed il riscatto impossibile
Se è questo il mondo reale dal quale Murphy parte, “niente è inevitabile” nella Hollywood (quando ancora era Hollywood-ream-land) che decide di re-immaginare al di sopra di una ipocrisia troppo a lungo mascherata nella ristrettezza mentale e nel retrogrado. La serie affonda appieno le mani in quei meccanismi crudeli e deprecabili della scalata al successo, che non risparmiano di presentare quel sottobosco melmoso viziato dalla mercificazione e dallo sfruttamento, che considera spesso e volentieri il sesso (ed il suo abuso) come moneta di scambio o come leva alla quale dover sottostare.
Da questo cosmo notturno e libertino gli autori traggono un riscatto impossibile in nome di un idealismo romantico, affidando le chiavi di una non-realtà nelle mani di un manipolo di sognatori nel pieno dell’incanto e dell’eterna fascinazione nei confronti di quell’oggetto scintillante che campeggia a caratteri cubitali sulle colline di Los Angeles. Una natura eterogenea fatta di omosessuali dichiarati, attori di colore e produttori donne che fino a quel momento hanno vissuto l’ombra del cinema con un sospiro desiderante e che ora (nel 2020?) aspira ad avere un ruolo chiave dall’altra parte del grande schermo.
Un cast perfettamente centrato e uno straordinario Jim Parsons
È nelle splendide fisicità di nuovi e vecchi collaboratori di Ryan Murphy che la fantasia si alimenta, tra Darren Criss, Jeremy Pope, David Corenswet e Jake Picking, ruotando all’interno di altrettanti nomi e volti inventati o realmente esistiti, come ad esempio quello del subdolo e contraddittorio super agente Henry Willson interpretato da un superlativo Jim Parsons (ottimo attore che prova a scrollarsi di dosso gli ingombranti panni dello Sheldon Cooper di The Big Bang Theory). Poi ancora Samara Weaving, Laura Harrier, Joe Mantello, Dylan McDermott, Patti LuPone, tutti magnificamente calati in corpi immersi in una dirompente via alternativa che è quella della realizzazione di un film sull’attrice Peg Entwistle e sul suo suicidio avvenuto in seguito alla perdita del lavoro e, quindi, del sogno.
Può disorientare o addirittura far storcere il naso la patina idilliaca che avvolge la miniserie Netflix dall’inizio alla fine, in un crescendo di ottimistico desiderio che non rinuncia nemmeno per un istante a poter credere di conoscere una sua (e di nessun altro) verità. Gli snodi cruciali trovano in una sceneggiatura benevola sempre la svolta che si adopera per il meglio, non permettendo alla brutalità di ciò che è al di fuori dell’inquadratura di contaminare l’essenza pura e vigorosa di quel salvifico potere che è l’immaginazione, mantenendo una tenuta organica che scorrendo verso il finale si rifiuta di considerare la possibilità di non potercela fare.
Ad alcuni risulterà intollerabilmente accomodante questo preciso desiderio di rifugiarsi nel caldo abbraccio di ciò che non è mai stato, ma è altrettanto innegabile come sia racchiusa nell’intrinseca natura dell’inganno cinematografico l’illusione di poter concepire un’altra vita, una vita migliore. “It’s for the dream”, baby. Sempre. Hollywood è disponibile in streaming dal 1 maggio.