Quasi nessuno conosce il nome di Miky Lee. Eppure, senza andare a scomodare riferimenti per soli appassionati come la Golden Age degli anni ’50/’70 o gli inizi della New Wave coreana degli anni ’90, è ormai da molto che i cinefili di tutto il mondo hanno imparato a vedere e apprezzare i film coreani, che si tratti dei successi festivalieri di Kim Ki-duk (Pietà su tutti) o della monumentale trilogia della vendetta di Park Chan-wook, composta da Mr. Vendetta, Oldboy e Lady Vendetta. Questo percorso di crescita ha però sicuramente avuto un punto di non ritorno con gli Oscar assegnati nel 2020 a Parasite.
Dei 92. Academy Award siamo infatti sicuri si continuerà a parlare per i decenni a venire, e non per lo show in sé – piuttosto noioso – ma per il fatto che la pellicola di Bong Joon-ho sia stata il primo film non in lingua inglese a portarsi a casa tanto la statuetta per il Miglior Film Internazionale quanto quelle per la Miglior Sceneggiatura, Miglior Regia e Miglior Film. Quattro premi (più la Palma d’Oro già conquistata a Cannes) per imprimere nuova forza a un percorso di crescita continua dei film coreani che, se certamente è dovuto alle grandi doti dei cineasti di quella terra, ha anche una responsabile principale in una singola donna la cui ambizione è sempre stata di arrivare da Seul al mondo intero: parliamo per l’appunto di Lee Mie-kyung, meglio nota come Miky Lee (in alcuni casi scritto Miki Lee).
Una protagonista del cinema mondiale, ereditiera della Samsung, promotrice del K-pop, cinefila amante del cinema italiano, proprietaria di oltre il 50% dei cinema del suo paese, che dopo l’incontro con Steven Spielberg si è dedicata alla settima arte e in tre lustri ha fatto del cinema coreano la quinta potenza mondiale del settore, dal successo a Cannes con Oldboy agli Oscar a Parasite. Vediamo nel dettaglio la sua incredibile storia.
MIE KYUNG LEE, LA MECENATE DEL CINEMA SUDCOREANO CHE HA SEGNATO LA FORTUNA DI UNA GENERAZIONE DI REGISTI
Miky Lee è la signora che sul palco del Dolby Theatre al momento del discorso di accettazione per l’Oscar al Miglior Film a Parasite ha giustamente preteso la parola, mentre un coro capitanato dal perfetto american boy Tom Hanks chiedeva non venissero abbassate le luci, e potrebbe essere definita semplicisticamente come la più grande mecenate del sempre più florido cinema sudcoreano.
Non si può dire che abbia effettivamente vinto l’Oscar al miglior film (in quanto per Parasite ha rivestito solamente il ruolo di produttore esecutivo), ma dietro questo trionfo c’è sicuramente il suo enorme zampino senza il quale tutto questo non avrebbe mai visto la luce. Sarebbe in effetti più corretto dire che la Lee, vicepresidente della potentissima azienda di investimento CJ Group (ex Cheil Jedang), non conosca ambito dell’intrattenimento del paese al di sotto del 38esimo parallelo all’interno del quale non abbia esplorato possibilità di crescita ed espansione. Per comprendere meglio la persona della visionaria Miky Lee si rivela necessario però scivolare all’interno di qualche cenno biografico e di una ricostruzione del suo ingresso prima nel mondo societario, ed in seguito in quello dello spettacolo.
MIKY LEE: QUANDO LA DITTA DI FAMIGLIA È LA SAMSUNG MA TU AMI IL CINEMA
61 anni, nata a Knoxville nel Tennessee e dopo poco tempo trasferita in Sud Corea, Miky Lee passa la sua giovinezza occupandosi di studi umanistici in giro per il mondo iniziando ad allacciare rapporti in tutti gli angoli del pianeta. Conosce altre tre lingue oltre al coreano (inglese, mandarino e giapponese) ed è stata la nipote del magnate Lee Byung-chul, che negli anni trenta dello scorso secolo fondò la Samsung Sanghoe, originariamente azienda alimentare focalizzata sulla distribuzione e che, con il passare dei decenni, mutò drasticamente forma fino a divenire una delle più grandi multinazionali oggi nota ai più semplicemente come Samsung.
Anno di svolta per le attività di famiglia fu il 1987, quando Byung-chul morì ed il controllo delle sue varie attività venne ridistribuito all’interno del nucleo parentale, mentre a fare da sfondo politico e sociale era il significativo passo verso la democrazia che la Sud Corea stava in quel momento attraversando. Il decennio a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 fu chiave anche per i numerosi passaggi di consegne all’interno del contesto industriale della penisola asiatica, con l’avanzata di una nuova leva di giovani ed intraprendenti dirigenti, come appunto avvenne anche con le aziende del Samsung Group.
Il percorso di Miky Lee fu particolare, perché a suo padre, il primogenito Lee Maeng-hee, toccò in eredità il ramo meno interessante ed apparentemente meno fruttuoso tra i papabili del conglomerato, quello del CJ Group che fino a quel momento aveva assimilato una attività minore dedita al settore chimico ed alimentare. Al comando della ben più gettonata Samsung (oramai incentrata sul mondo dell’elettronica) finì invece il figlio minore del magnate deceduto, Lee Kun Hee, che decise di prendere sotto la sua ala la nipote Miky Lee, da poco laureata ad Harvard, e di affidarle in gestione gli affari dell’azienda in terra statunitense.
La passione dell’allora giovane ereditiera per il cinema avrebbe giocato un ruolo importante negli anni a venire per il gruppo di famiglia. Da sempre affascinata da Hollywood e appassionata tanto di cinema di genere quanto di pellicole d’autore, Miky Lee non ha infatti mai fatto mistero di essere una grande ammiratrice del lavoro di Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Catherine Deneuve e Alain Delon. Tra i film con cui si è formata invece troviamo titoli in parte sorprendenti come Mad Max, Love Story, Il Giustiziere della Notte, Pink Flamingos, Velluto Blu e L’Anno del Dragone.
L’AVVICINAMENTO DI MIKY LEE CON STEVEN SPIELBERG E LA DREAMWORKS
È proprio lavorando negli USA che l’erede più silenziosa della famiglia inizia a fiutare l’opportunità di ampliare gli interessi societari muovendosi anche verso altri lidi. Nel 1994 la Lee viene approcciata da un intermediario che le presenta una proposta di investimento proveniente da un brillante trio dell’industria cinematografica americana. Steven Spielberg, David Geffen e Jeffrey Katzenberg erano infatti intenzionati a trovare soci che potessero far affluire denaro in modo tale da avviare uno studio che avrebbe portato il nome di DreamWorks. L’idea venne sottoposta al capo del Samsung Group Lee Kun-hee, che si dimostrò intrigato dall’idea anche tenuto conto delle recenti manovre in terra asiatica di acquisizione di colossi dell’intrattenimento come quella da parte della Sony nei confronti della Columbia Pictures per 3,4 miliardi di dollari (1989).
L’accordo però naufragò ed il trio sembrava così destinato a trovare differenti forme di finanziamento. Ma come lo stesso Bong Joon-ho ha avuto modo di dichiarare, Miky Lee “è una vera cinefila che ha guardato una miriade di film ed è riuscita a trascinare quella fanatica passione nel mondo degli affari”. La donna non si dà quindi per vinta e nel 1995 viene direttamente contattata dalla DreamWorks nel tentativo di trovare uno sbocco alternativo alla vicenda. Questa volta la proposta viene portata all’attenzione della CJ Group, della quale Miky Lee e suo fratello Lee Jay-Hyun avevano nel frattempo assunto sempre di più il controllo.
Nelle casse del nascente studio fluirono 300 milioni di dollari, con la CJ (intanto divenuta di volta in volta una costola indipendente da Samsung) che diventò uno dei principali investitori e conservò anche una percentuale del 10.8% sui diritti di distribuzione in Asia (ad eccezione del Giappone) dei futuri film dello studio d’animazione. La Lee riuscì così nel doppio colpo di smarcare con una mossa sola l’azienda dal meno appetibile settore alimentare e chimico, introducendola nel florido mondo dello spettacolo e per di più facendolo ottenendo una nobilitazione venendo da un’associazione con un regista che aveva da poco diretto film come Schindler’s List (sbancando agli Oscar) e Jurassic Park.
ARRIVA IL BUSINESS DEI MULTISALA: MIKY LEE CONQUISTA LA COREA DEL SUD E PROMUOVE IL K-POP
La partita era però appena cominciata. Essere diventati i distributori ed i principali sponsor in patria di alcuni prodotti di un regista oramai consacrato a livello internazionale come Spielberg era certamente il perfetto biglietto da visita per proporsi tra i leader del settore, se non fosse che in Sud Corea il tessuto di fruizione cinematografica era scarsamente alimentato e soprattutto carente di strutture adeguate. I fratelli Lee colsero nuovamente la palla al balzo, inserendosi in un solco dove spazio da riempire ce n’era a volontà. Dal CJ Group venne partorita la sussidiaria CJ Entertainment, sulla cui poltrona di comando si accomodò proprio Miky Lee che con la sua direzione artistica seppe riconoscere nel momento della crisi economica del 1997 l’occasione ideale per rafforzare il controllo sulla rete di distribuzione nazionale anche a seguito del fallimento di competitor diretti come la Samsung Entertainment (1999).
Altro anno della svolta fu il 1998, con l’apertura del primo multiplex dell’intera Corea del Sud targato CJ, a porre il primo tassello della catena di sale cinematografiche più prospera dell’intero paese, la controllata CGV che attualmente detiene oltre il 50% del mercato di distribuzione nazionale. Ad aiutare la CJ vennero intanto anche incontro norme statali che incentivarono gli esercenti ad inserire nei propri palinsesti una percentuale minima di film locali, contribuendo a generare una crescita costante del guadagno proveniente dai prodotti coreani che passò rapidamente dal 10% ad oltre del 50% sul totale del mercato. Un progetto simile a quello che in seguito sarebbe stato messo in atto anche per il mondo dell’intrattenimento musicale, dove la Lee ha favorito in particolare modo il boom del K-pop con eventi mediatici dall’esplosiva portata in tutto il globo, supportati da festival e convention spettacolari trasmessi in mondo visione dai canali tv di proprietà della CJ Entertainment.
DAI DVD DI FILM COREANI REGALATI IN LUNGO E IN LARGO ALLA SVOLTA DI OLDBOY AL FESTIVAL DI CANNES
Ad accompagnare i pesanti investimenti nelle infrastrutture arrivarono però anche flussi economici per sovvenzionare i prodotti originali di matrice coreana. Moltissimi artisti del mondo del cinema (ma non solo) ottennero finanziamenti per i loro progetti, garantendo alla CJ Entertainment di far crescere dal basso una nuova leva di registi che permetteva di attrarre nelle sale di tutto il paese un numero sempre maggiore di spettatori. Uno dei primi successi in patria fu nel 2000 Joint Security Area, un action drama firmato dal quasi esordiente Park Chan-wook. Sarà solo nel 2004, quando il regista grazie a CJ porterà Oldboy a vincere il Gran Premio della Giuria a Cannes, che per il cinema coreano arriverà il punto di svolta internazionale.
Da quanto dichiara la stessa Lee, fu infatti in quel momento che la sua infaticabile opera di evangelizzazione per promuovere i film della sua terra divenne improvvisamente meno difficile: «Portavo sempre con me dei DVD e andavo alla Warner, alla Universal, alla Fox o da chiunque ne avessi l’opportunità per promuovere film coreani, film coreani, sempre film coreani. Nessuno pensava che i nostri film fossero abbastanza buoni per essere di qualche utilità» ma quando Park Chan-wook vinse a Cannes «da quel momento non dovetti più sforzarmi di dare troppe spiegazioni per convincere qualcuno».
BONG JOON-HO, DALLA PRIMA ORA UNA SCOMMESSA DI MIKY LEE
Uno dei registi che hanno beneficiato dell’ala protettiva di Miky Lee e della sua azienda (che ora conta entrate per 2.9 miliardi di dollari all’anno ed ha branche in oltre sei paesi tra cui gli USA), è stato proprio Bong Joon-ho, che ha visto finanziati e distribuiti i suoi The Host, Memorie di un assassino, Madre, Snowpiercer e l’appunto recente mattatore Parasite. Proprio quest’ultimo film è emblema di un modello industriale vincente, che ha visto aumentare in modo vertiginoso la vendita dei biglietti nei giorni successivi al trionfo agli Academy Awards, con un’impennata dell’oltre 230% nella sola terra statunitense (dove porta a casa un totale di 44 milioni), arrivando ad incassare su scala globale più di 200 milioni di dollari complessivi.
IL CINEMA COREANO, QUINTA POTENZA MONDIALE DEL SETTORE
La vittoria di Parasite agli Oscar non fa altro che confermare l’ottimo stato di salute che la cinematografia coreana sta vivendo negli ultimi due decenni, riconoscendone un appeal che si propaga ben oltre i confini nazionali. Miky Lee è senz’altro tra i principali artefici che hanno contribuito a rendere il sistema produttivo sudcoreano competitivo a livello internazionale, spingendo a diventare la Corea del Sud il quinto paese al mondo come forza industriale cinematografica. L’incredibile trend positivo di crescita conta 1.61 miliardi di dollari di profitto (oltre la metà con prodotti domestici) rispetto ai circa 370 milioni del 2004. Un ampliamento dei consumi impressionante, sicuramente distante ancora molto dagli oltre 11 miliardi degli Stati Uniti ma comunque una porzione più che significativa della top five che considera capofila anche la Cina e più indietro, a pari merito, Regno Unito e Giappone.
L’arrivo dei riconoscimenti più importanti a livello festivaliero e di premiazione non fanno altro che rafforzare l’efficiente ossatura che Miky Lee ha costruito nella sua terra natia con lungimiranza ed investimenti economici miliardari. Dimostrazione di come un piano industriale ben congeniato porti i suoi frutti sul lungo termine, non senza intoppi o critiche (basti pensare alle condanne e all’arresto per evasione che hanno colpito il fratello di Lee nel 2013). In ogni caso siamo sicuri che nei prossimi anni si continuerà a sentir parlare di film coreani da vedere assolutamente – almeno in relazione alla produzione della Corea del Sud – e quindi, inevitabilmente, del più grande nome alle loro spalle.