Artemis Fowl è il primo grande sacrificato in casa Disney a venire dirottato direttamente sulla piattaforma streaming Disney+ senza passare per la sala, dove inizialmente era previsto dovesse arrivare nel maggio di quest’anno (già a seguito di un rinvio). Vero è che il film ha trovato nella terribile pandemia del Covid-19 uno scoglio quasi insormontabile, che nella realtà appare però come un cinico volano alla possibilità di evitare un riscontro al botteghino che si sarebbe rivelato molto probabilmente disastroso.
Questo perché l’adattamento dell’omonima e celeberrima saga di Eoin Colfer, firmato da Kenneth Branagh e già carico di aspettative anche a fronte di un budget produttivo colossale da vero blockbuster (circa 125 milioni di dollari), cola che più a picco non si può nel giovane catalogo di Disney+, dimostrando di essere un’opera priva di brio e di qualsivoglia coordinata creativa.
ARTEMIS FOWL: DA UN SUCCESSO LETTERARIO UN ADATTAMENTO PROBLEMATICO
Nell’universo fantastico intessuto nelle pagine degli otto romanzi che compongono la saga di Colfer, dei quali primi due Artemis Fowl dovrebbe rappresentare una libera trasposizione, il mondo degli uomini così come lo conosciamo poggia sul nascosto e fatato mondo popolato da creature mitologiche di ogni sorta. Un mondo la cui peculiarità è quella di scostarsi dalla concezione classica del tema fantasy, qui mutuato in una chiave futuristica che vede i tipici gnomi, goblin, fate e compagnia destreggiarsi tra schermi invisibili e spostamenti a bordo di navicelle.
A fare da cerniera tra l’ignara società degli uomini (sostanzialmente non pervenuta nel film) e un sottosuolo che conserva nell’elemento magico la propria ragion d’essere, c’è Artemis Fowl Sr. (Colin Farrell) che con la sua ossessione per questo cosmo fantastico rappresenta l’unico punto di contatto tra le due sfere. A questo punto vorremmo potervi fornire ulteriori linee guida alla lettura del testo, ma è sbalorditivo il modo in cui questo adattamento riesca a rivelarsi respingente su qualsiasi fronte narrativo, rendendo indigesto il tentativo di comprensione che uno spettatore ignaro prova disperatamente a mettere in atto nei suoi confronti.
In teoria sappiamo anche che il protagonista del film è il figlio del protagonista, Artemis Fowl Jr. (Ferdia Shaw), il cui rapporto con il padre – che viene rapito ad inizio film e sul quale ruota, o meglio si affossa, tutto il racconto – è tanto morboso quanto delineato in due linee di dialogo in croce. Da riconoscere è che il giovanissimo Shaw ha quantomeno un physique du rôle adatto al suo personaggio, peccato solo che non riesca ad imboccare una singola intonazione emotiva (senza dubbio complice anche una inadeguata direzione nei suoi confronti), quindi andando ad emergere fuori con una costante overacting. Ci mette del suo anche una sceneggiatura (a quattro mani tra Michael Goldenberg e Judy Hofflund) che se lo dimentica continuamente per strada, indirizzando l’attenzione di chi guarda non si sa bene dove e soprattutto su cosa, incapace di fare il contorno ad una storia che vede scontrarsi “buoni” con i “buoni” mentre i “cattivi” non si sa chi siano e perché vogliano qualcosa (sempre che la vogliano davvero).
KENNETH BRANAGH FALLISCE CLAMOROSAMENTE CON ARTEMIS FOWL
Artemis Fowl ha il carattere tipico di quelli che sono gli episodi pilota di una serie, il cui unico compito è quello di preparare il campo a ciò che verrà dopo e porsi a fertile terreno sul quale lasciar impiantare e sedimentare un immaginario, narrativo e visivo. Il film di Branagh dimentica però di essere uno scherzo da centinaia di milioni, incapace di assolvere anche al ruolo basilare di apripista per sequel che a questo punto probabilmente non vedremo mai, viziato anche da una regia insulsa e sempre fuori fuoco sulla quale la mano del poliedrico Sir britannico sembra non andare mai a poggiarsi.
Di fatto nel corso dei novantacinque minuti di durata della pellicola non viene costruito nulla, saccheggiando (male) a piene mani da forme e modelli triti e ritriti dai generi ai quali vorrebbe appartenere, la cui unica bussola è l’irritante voice over di un almeno divertito Josh Gad (come la sempre cara Judi Dench, che dopo l’esilarante Cats aggiunge un’altra pietra miliare all’albo dei ruoli che accetti solamente quando arrivi ad un punto in cui vuoi prendere un po’ meno sul serio il tuo lavoro).
Con Artemis Fowl a venire meno è il teorema fondativo di casa Disney, quella mitopoietica in grado di costruire empatia nei confronti dei personaggi chiamati a muoversi sullo schermo, qui antipatici e spigolosi nel loro non essere mai plasmati realmente ma lasciati in balia di una creta informe. Da dimenticare.