È impossibile non considerare la triste coincidenza che lega a doppia mandata l’uscita di Da 5 Bloods – Come Fratelli di Spike Lee (direttamente su Netflix) alla valanga di esasperazione che irrompe da settimane per le strade degli Stati Uniti dopo l’uccisione da parte di un poliziotto dell’afroamericano George Floyd. L’ennesimo episodio di un razzismo multiforme e infestante che piaga da sempre gli USA, in particolare alcuni stati, e rispetto al quale colpisce la significativa attualità del nuovo film del regista atlantano.
L’America, tanto più con il rafforzamento dell’estrema destra avvenuto durante la presidenza Trumpiana, non ha mai realmente fatto i conti con un passato di bandiere confederate e soprusi razziali, e se il cinema di Lee denuncia da sempre la condizione nera, è evidente come tra il suo capolavoro Fa’ la cosa giusta e questo piuttosto deludente Da 5 Bloods – Come Fratelli gli innegabili tratti comuni siano sfociati in esiti ben diversi.
DA 5 BLOODS – COME FRATELLI: IL NUOVO FILM DI SPIKE LEE SU NETFLIX È IMPERFETTO MA RISUONA CON L’ATTUALITÀ
Da 5 Bloods – Come Fratelli è infatti un’opera imperfetta che, come abbiamo detto, si trova inevitabilmente potenziata dalla dimensione extradiegetica che la investe e che investe (speriamo) l’animo toccato delle persone che vi si approcciano. Il Lee lasciato totalmente libero di agire dal colosso di streaming non dà certo il suo meglio e sembra lontano anche solo l’Oscar vinto con BlacKkKlansman, senza dubbio più ingessato ma in virtù di questo più lucido nell’incanalare la propria acredine a favore dell’atto di militanza. Quello di Da 5 Bloods – Come Fratelli invece sembra essere il senile e rabbioso sfiammare di un autore che ha fatto della guerriglia cinematografica manifesto di una cultura a cavallo tra il pacifico Dr. Martin Luther King e il reazionario Malcolm X.
La “Madness! Madness!” dei quattro commilitoni e veterani neri che tornano nel Vietnam contemporaneo, conquistato dopo decenni dall’unica altra arma oltre alle bombe di cui gli Stati Uniti dispongono – il capitalismo -, è quella di un riscatto su schermo fuori tempo che si prende volutamente gioco degli iconici “white power” alla Rambo. Quattro uomini vecchi, imbolsiti, acciaccati, vittime di stress post traumatico che tornano nella tana dei fratelli-nemici Viet Cong per recuperare i resti del quinto “blood”, il loro ex-capitano/guru caduto in battaglia Norman “Stormin’ Norm” Halloway (Chadwick Boseman). E, anche, una cassa piena di lingotti d’oro.
Se la prima ora del film (che ne dura complessivamente oltre due e mezza) raccoglie un Lee estremamente asciutto e lineare dalle parti di una avventura introspettiva (scimmiotterà Apocalypse Now), non per questo non restituisce l’aspro che anzi qui si riversa nella maniera più graffiante tra le molte (troppe) altre proposte nel corso della pellicola. Attacchi diretti all’attuale amministrazione statunitense, critiche ad una storiografia cinematografica succube del culto bianco, inserti d’archivio dalle lotte per i diritti dei neri mentre gli stessi neri venivano massacrati dentro e fuori la patria. Da 5 Bloods fino a qui è compatto in un carattere che funziona perché attraversato da una mai lasciata indietro ironia avvolta nel velenosissimo velo che mantiene a fuoco la lotta a colpi di sferzate.
DA 5 BLOODS – COME FRATELLI È UN PASTICHE CHE FATICA A VEICOLARE IL MESSAGGIO DI SPIKE LEE
Poi arriva la seconda parte del film che sprigiona un altro Spike Lee, ora consapevole della portata ambiziosa della sua opera che decide di declinare secondo dei criteri desiderosi di abbandonare l’intento a tratti (ri)educativo di cui si stava fregiando fino a questo momento. È una sterzata molto netta che assomiglia più a una slavina che a un mero smottamento, coadiuviato dall’ausilio da frammenti di repertorio video e fotografico che accompagnano con shock visivi sempre più netti la discesa in un grottesco che non si salda mai alla retina ma che ruzzola giù dal pendio. Ed è palese la volontà di Da 5 Bloods di provare a porsi come il “joint” (così chiama Lee i suoi film) definitivo, di racchiudere, sangue su schermo, le sfumature di una attualità attuale da trent’anni dove l’orgoglio del sentirsi americani cozza con quello che si porta dietro il “make America great again” stampato a caratteri cubitali sul cappellino indossato da Delroy Lindo (lui sì davvero strepitoso).
Ma il regista va a tradirsi (in un lavoro scritto assieme a Danny Bilson, Paul De Meo e Kevin Willmot) proprio nel momento in cui mette a confronto le contraddizioni dei “bloods” e delle lotte divenute altro (il denaro, il successo, la famiglia) fuori da quella giungla dove è caduto l’unico vero idealista tra loro. Perché su questo ritorno nel luogo di una memoria, che è disperato recupero di una militanza attiva, Lee addensa e addensa una sfacciataggine che cede molto rapidamente il passo ad un’opulenza anti-citazionistica, che nello sberleffo decostruisce pezzo dopo pezzo l’ottimo potenziale posto in carica ma poi sciupato nel voler farsi troppo.
I generi che Spike Lee vorrebbe contaminati tra loro non trovano feconda fratellanza nel cinico occhio del regista, respingendosi a vicenda in un rimbalzare senza collante. I temi saranno pure gli stessi che Lee tratta sin dai suoi primi successi, ma oggi più che mai ci teniamo stretto Fa’ la cosa giusta.