Il Re di Staten Island (titolo internazionale The King Of Staten Island) è un film di 130 minuti che ha dentro di sé tante – troppe – storie e sottotrame. Alla fine, nell’opera di Judd Apatow ( Love, 40 Anni Vergine) i personaggi e i loro archi narrativi sono schiacciati e compressi, nel senso che il mondo del protagonista è fatto dalla sua famiglia disastrata, dal nuovo compagno della madre, dalla sorella, dalla fidanzata, dai colleghi e da altri ancora. Il risultato finale è un’opera che comprende momenti dolcissimi, qualche idea interessante ma che nel complesso, a livello drammaturgico, è un piccolo disastro.
IL RE DI STATEN ISLAND E LA STORIA VERA DEL COMICO PETE DAVIDSON
Affermatosi alcuni anni fa come stand up comedian e ormai membro fisso del Saturday Night Live, Pete Davidson è il protagonista di Il Re di Staten Island, nonché il co-sceneggiatore. Il film di Apatow è basato – non si sa con quanta precisione – sulla vita del comico statunitense, nato proprio nella periferia newyorkese da cui il film prende il titolo e vittima egli stesso delle sventure che capitano al protagonista.
The King Of Staten Island racconta proprio di Scott, un 24enne disoccupato di Staten Island che passa le giornate sul divano a fumare con i suoi amici. Ha alle spalle una storia di depressione e dipendenza da droga, causata in buona parte dal trauma per la perdita del padre, un pompiere morto in servizio. Scott vive con la madre – Marisa Tomei – e la sorella neodiplomata che sta per trasferirsi a New York per frequentare il college. La routine del protagonista viene sconvolta quando, dopo 17 anni, la madre incomincia una relazione con un altro uomo.
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA PERIFERIA È LA PARTE MIGLIORE DI THE KING OF STATEN ISLAND
Staten Island incarna una tipologia di luogo che è stata spesso rappresentata nel cinema americano. Si tratta di una periferia che non ha alcun tipo di caratteristica, nel senso che somiglia alla Sacramento di Lady Bird. Normalmente, specialmente quando si parla di opere europee, le periferie – come quelle parigine o romane – sono fortemente connotate, rappresentate come luoghi lugubri, poveri e pericolosi che sono parti fondanti del carattere dei protagonisti. Lo abbiamo visto recentemente ne I Miserabili, un film dove la banlieu è quasi protagonista del film.
Ciò che è meglio riuscito in The King of Staten Island è proprio la rappresentazione del luogo in cui è ambientato. Una periferia quasi di serie B, sorella minore e ridicola al confronto con New York, la grande città, la metropoli, il luogo dove si trovano le vere opportunità. Staten Island non è il pericoloso Bronx e non è cool come Brooklyn. È semplicemente un’isola dalla quale si può raggiungere Manhattan solo con un battello. New York è una città che al cinema e nella letteratura è iper-rappresentata, con i suoi quartieri talvolta sfarzosi e talvolta poveri e pericolosi. Mentre Staten Island non ha una precisa identità. È un luogo semplicemente ‘noioso’ e ‘grigio’ e Apatow e Davidson sono bravissimi a catturare quell’atmosfera.
Ne viene dunque fuori un’unità di luogo nella quale moltissimi spettatori possono riconoscersi. Quella di un luogo marginale dal quale molti scappano appena possono mentre altri ne vengono trascinati dentro e immobilizzati. La sorella scappa a New York appena può, Scott non riesce.
L’UNIVERSO DEL PROTAGONISTA È TROPPO GRANDE PER ESSERE CONTENUTO IN UN FILM
Come abbiamo già detto, Il Re di Staten Island non è un film interessato tanto a raccontare una storia specifica, quando a scandagliare il mondo del protagonista. È uno studio su un personaggio e sugli episodi che lo hanno portato a diventare la persona che è. Al di là di alcuni “escamotage” narrativi molto forzati – come il motivo per cui Scott e il compagno della madre finiscono a vivere insieme per un breve periodo – lo script di Davidson, Apatow e Dave Sirus appare decisamente ridondante.
In un solo film, Apatow cerca di raccontare il sogno del protagonista – quello di diventare un tatuatore -, il rapporto con i suoi amici, con la sorella, con una sorta di “fidanzata”, con la madre e con il compagno della madre, la vita all’interno di una centrale dei pompieri e infine anche il rapporto fra Scott e i figli del compagno della madre. Ci sono diversi personaggi interessanti, come la sorella e gli amici di Scott, le cui storie e personalità vengono sbrigate troppo in fretta. Specialmente l’arco narrativo degli amici di Scott è ridicolo, forzato e quasi inutile ai fini della trama.
E i personaggi secondari sono scritti e diretti benissimo. E sarebbe stato bello vedere loro di più e saperne di più delle loro vite.
In conclusione, Il Re di Staten Island è un “dolce disastro”, un film con troppa carne al fuoco e con uno script poco preciso. Apatow cattura benissimo lo spirito di Staten Island ma non riesce a mettere in piedi una storia che ci appassioni. La pellicola alla fine è un insieme di gag diverse, di situazioni, di forzate svolte narrative per arrivare a una risoluzione molto elementare. Le soluzioni sarebbero potute essere due: pensare di fare della vita di Pete Davidson una seria oppure tagliare a livello di script. Apatow non ha scelto nessuna delle due, confezionando così un prodotto che funziona a intermittenza, che racconta di un uomo divertente ma che non ci appassiona più di tanto. Un dolce disastro, appunto.
Il film sarà distribuito al cinema e in digitale dal 30 luglio.