High Life, film di fantascienza d’autore che è anche il primo lavoro in inglese dell’apprezzata cineasta d’Oltralpe Claire Denis (J’ai Pan Sommeil, Beau Travail, Los Salauds), viene distribuito nelle sale italiane da Movies Inspired dal 6 agosto 2020. Eppure la prima volta che la Denis – anche co-sceneggiatrice – ebbe un’idea per il copione di High Life fu quasi un ventennio prima, nel lontano 2001.
HIGH LIFE: UN FILM DI FANTASCIENZA DRAMMATICO NATO DA UNA BATTUTA DI SPIRITO
La regista aveva appena diretto Vincent Gallo in Cannibal Love – Mangiata Viva, e durante la promozione del film scherzò sul caratteraccio dell’attore sottolineando che era tanto egoista e piantagrane che l’unico script che avrebbe potuto scrivere appositamente per lui lo avrebbe visto totalmente da solo nello spazio.
Evidentemente quello scherzoso paradosso ha piantato un seme che è lentissimamente germogliato fino a diventare il film intenso e meditativo che è High Life; eppure di facezie nell’ultimo lavoro della Denis non c’è traccia. C’è anzi tutta l’oscurità che ha caratterizzato la sua vita durante la produzione, che l’ha vista fare la spola tra il set e il letto di morte della madre.
LA TRAMA DI HIGH LIFE
High Life racconta vicende che si svolgono nell’arco di 18 anni spaziali (210 sulla terra) e vede protagonista Monte (uno straordinario Robert Pattinson), giovane uomo che si ritrova da solo con una neonata in un’astronave deserta alla deriva nello spazio profondo.
Presto la natura duale del film si rivelerà allo spettatore, e un lunghissimo flashback (la parte principale del film) ci racconterà le vicende di un gruppo di giovani carcerati che hanno accettato di esser arruolati in un’interminabile missione spaziale.
Mentre questi ragazzi difficili, galeotti improvvisatisi astronauti, uomini e donne sedati ma mai sereni, viaggiano da soli alla volta di un buco nero, la spregiudicata Dottoressa Dibs (Juliette Binoche) li usa come cavie per studiare la vita nello spazio e soddisfare le proprie brame.
Claire Denis e il debito verso il Tarkovskij di Solaris
Pur essendo un film di fantascienza, High Life non somiglia neanche lontanamente a un film d’azione o di avventura. Anzi, con i suoi ritmi letargici e le tematiche filosofiche, è chiaramente debitore del Solaris di Tarkovskij (che la Denis cita apertamente a più riprese).
La costruzione non lineare e l’evidente vocazione autoriale fanno infatti del contesto fantascientifico un mero pretesto per ragionare in assoluti sull’esperienza umana, e la pellicola diventa così un contenitore di due storie quasi indipendenti, una sintesi di opposti armonici tra loro.
HIGH LIFE COME PRISON MOVIE
High Life, al netto dell’evocativa ambientazione spaziale, è infatti tanto un prison movie quanto un racconto d’amore paterno. La prigione messa su pagina dalla Denis insieme al suo collaboratore storico Jean-Paul Fargeau (e a due script doctor) è infatti uno spazio senza sbarre, senza guardie e senza limiti. A tenere buoni questi coraggiosi rifiuti umani che sulla terra non avevano nulla da perdere ci sono tranquillanti somministrati con costanza e il sesso.
La tematica del sesso, vero fulcro del film
Il tema del sesso è infatti il vero fulcro della pellicola. Eppure non parliamo dell’atto consumato da una coppia, ma di una tensione continua e strisciante che non riesce ad essere sublimata da un’apposita stanza dell’autoerotismo (che ospita una scena cult con la Binoche).
Nonostante le droghe, la nave diventa una polveriera pronta a esplodere costantemente percorsa da fluidi corporei, intimità rubate, masturbazione e provocazioni continue. Il sesso rappresenta il lato oscuro degli istinti di un essere umano assoluto, prototipo, separato da ciò che dovrebbe renderlo tale.
La tematica della vita, opposta e complementare a quella del sesso
A fare da contraltare a questa cupa sinfonia di bisogni inespressi o disumanizzati, vi è invece quella che dovrebbe essere la ragione biologica (e quindi primordiale anch’essa) dell’atto sessuale: la riproduzione. Anche se nel film, di naturale, non ha quasi niente. La vita appena sbocciata della dolcissima neonata che in momenti di rara poesia divide la scena con Pattinson non ha niente a che fare con la ragnatela di rapporti umani disfunzionali tra uomini e donne a pezzi che è stata quell’astronave.
In questa parte del film, non senza una buona dose di difficoltà esistenziali, ritroviamo però l’amore, la luce, la redenzione. Ancora una volta a riempire lo schermo vi sono gli istinti primordiali dell’uomo, eppure stavolta ci confortano. L’amore gratuito, la dedizione e l’empatia sembrano tanto naturali quanto la regola hobbesiana dell’homo homini lupus.
LA SPIEGAZIONE DEL SIGNIFICATO DI HIGH LIFE: L’AMORE COME PROSPETTIVA
In questo film intriso di erotismo eppure fatto di sesso quasi mai mostrato, la reclusione in un’astronave isolata nello spazio e nel tempo diventa quindi uno stratagemma narrativo per riflettere sul motore primigenio che caratterizza l’esperienza umana. Il sesso come piacere (autoprocurato, condiviso, rubato) e come generazione della vita, che però si ritaglia un rapporto del tutto particolare con il tema dell’amore.
Questi uomini e donne dalle esistenze difficili, pur essendo partiti insieme per la più grande delle avventure, non sono in grado di amarsi davvero tra di loro – né probabilmente di amare se stessi. L’unica forma di amore presente nel film è quella di un padre per una figlia. L’unico amore vero possibile nell’isolamento di una prigione spaziale è quello ‘puro’, scevro da ogni implicazione erotica, e questo perché la Denis intende l’amore come prospettiva.
Senza una prospettiva passata (gli errori lasciati alle spalle sulla terra), una prospettiva presente (un mondo da vivere insieme) e una prospettiva futura (la possibilità di immaginare dei progetti condivisi) non esiste l’amore. Ed ecco che una bambina che si trasforma lentamente in adolescente, una bambina che è l’impersonificazione della crescita e quindi della prospettiva, è la quintessenza dell’amore.
E infatti appena la bambina diventa donna e quell’innocenza è adombrata da lontane suggestioni d’incesto, gli equilibri della nave devono essere necessariamente rotti per restare uguali – in uno sforzo gattopardesco.
UN FILM DI RARA SENSIBILITÀ CHE È POESIA PER GLI OCCHI
High Life è un film dal budget veramente minuscolo per il genere (appena 8 milioni di Euro, contro ad esempio i 108 milioni di The Martian), e se da una parte è incredibile quanto la produzione sia riuscito a farlo fruttare, dall’altra non mancano momenti nei quali la povertà dei set ha quasi un sapore amatoriale – che perdoniamo a occhi chiusi.
Al netto di qualche manchevolezza, infatti, le scenografie e i costumi hanno un tale carattere da essere quasi dei comprimari in sé. L’influenza degli anni ’60/’70 è evidente, ma non ci riferiamo all’immaginario sci-fi d’epoca, quanto alla paletta e alle texture dell’interior design di allora.
Tra tessuti grezzi dalle tinte neutre e pannellature imbottite, si crea una quinta beige (e petrolio) continuamente bagnata da intense luci rosse, magenta, viola. Il risultato è una sublime tavolozza fatta di tortora, giallo, mattone, rosa e ottanio, nella quale lo split toning della fotografia di Yorick Le Saux (Personal Shopper) separa come una lama le luci calde dalle ombre fredde.
Le interpretazioni del cast sono tutte convincenti, e una menzione a parte la merita la ‘strega’ dell’ingegneria genetica incarnata da Juliette Binoche, una novella Medea che è anche una sorta di incarnazione del Dottor Frankenstein, motivata com’è a fabbricare la propria creatura.
Il design dell’astronave e l’essenziale orizzonte degli eventi concepiti dall’artista Ólafur Eliasson non possono che essere un’ulteriore preziosa coloritura a un film inusuale, non sempre fluido e a tratti disomogeneo, che però ha dalla sua tutto il fascino di un cinema di alta ambizione, che sa giocare con il genere per parlare (letteralmente) dell’universale.