Capone di Josh Trank, il suo primo film dopo il clamoroso fallimento di Fantastic 4 – I Fantastici 4 e l’allontanamento dalla regia di uno spin-off di Star Wars, ha conosciuto un periodo di gestazione oltremodo lungo e travagliato. Annunciato inizialmente nel 2016 con il nome di Fonzo e con protagonista Tom Hardy, il film non ha visto le sue riprese iniziare prima del maggio del 2018, complice anche l’attesa del termine del girato dell’altro lavoro nel quale era coinvolto l’attore inglese, Venom. Da quella data si sono avvicendati ulteriori ritardi e problematiche che hanno comportato lo slittamento dell’uscita fino al 2020, incrociando in pieno anche la crisi distributiva causata dalla pandemia mondiale del Covid-19.
E la pellicola scritta, diretta e montata da Trank è uscita inevitabilmente sfiancata da un innaturale processo produttivo così tremendamente sfilacciato e protratto nel tempo, impedendo a Capone di potersi presentare al meglio di alcune potenzialità evidenti ma impossibili da riconoscere nella loro totalità espressiva.
CAPONE RACCONTA UN AL CAPONE CREPUSCOLARE NON RIUSCENDO PERÒ A METTERE A FUOCO LA STORIA
La maggiore problematica del film è indubbiamente quella legata alla sua incapacità di mettere a fuoco un preciso target al quale rivolgersi. Infatti, se da un lato la scelta last minute del nome Capone rimanda ad una precisa identità storico-culturale dell’America del proibizionismo (sicuramente più di quanto facesse l’originale Fonzo), dall’altro il film di Trank è tutt’altro che un convenzionale biopic, decidendo di soffermarsi sull’ultimo anno di vita del sempre più malato boss mafioso di Chicago. È un’operazione che ricorda molto da vicino il nostrano Hammamet di Gianni Amelio, con il focus sul non-tanto-buen retiro di Capone nella paludosa Florida circondato dai familiari più stretti e minato nella salute dalla sifilide che ne consuma pezzo per pezzo fisico e facoltà mentali.
Trank decide di non seguire nessun filo conduttore nel corso dell’ora e quaranta di girato, ignorando qualsiasi ricostruzione biografica del personaggio e sostentando il suo racconto in tutto e per tutto nel progressivo decadimento di un uomo agli sgoccioli e sempre più perso negli oscuri meandri dei suoi deliri e delle sue allucinazioni. Il carattere più interessante di Capone (probabilmente l’unico) è nei momenti in cui cede nell’onirico abisso della malattia del suo protagonista, abbandonandosi nei sogni ad occhi aperti che hanno l’aspetto più che altro di un incubo senza via di uscita e reiterato.
JOSH TRANK FALLISCE DI NUOVO E A FARNE LE SPESE È IL FILM SUL CELEBRE GANGSTER
Nonostante in seno a questa fibra sia messa su schermo la sequenza più valida del film, circa a metà, tra ombre senza volto ed iperviolenza, è costante la sensazione di come questo aspetto sia sviscerato con il freno a mano tirato e castrato da un’impalcatura incapace di apportare sostegno ad una struttura altrimenti fragilissima. Si notano in modo evidente le difficoltà dovute ai continui rimescolamenti nel corso degli anni, da una sceneggiatura che tenta di imboccare vie che poi non affronta mai davvero fino ad un montaggio pasticciato ed in più di un frangente fastidiosamente confusionario.
Trank sembra potersi salvare in parte solo nel suo lavoro dietro la macchina da presa, messa al totale servizio di quello che è il vero cardine portante di Capone, ovvero un Tom Hardy lasciato libero di sprigionare la sua carica da caratterista in una performance esagerata ma che intercetta squisitamente quella esile vena onirica in cui si immerge il film. Hardy, che aveva avuto non pochi problemi a calarsi nei panni di due gangster in Legend, qui presenta un suo “Scarface” che è un morto che cammina, uno zombie sfregiato che odora di carne putrefatta che sembra potersi sfaldare da un momento all’altro solamente sfiorandola. La carica necrotica che l’attore londinese riesce ad imprimere al suo personaggio è il reale collante che tiene insieme in modo precario tutte le altre parti, validandone, paradossalmente, quella condizione di insufficiente unitarietà sotto l’egida di una maschera funerea.
Rimane un peccato dover riconoscere che il Capone arrivato a questa sua forma conclusiva abbia più note stonate che liete, perché la sensazione è che davvero Trank avesse un qualcosa di più da dire e che non sia riuscito a trasporlo in una sostanza definitiva come nelle intenzioni che ogni tanto fanno capolino nel film e poi scompaiono di nuovo nell’oblio. Certo è che, dal suo folgorante esordio con Chronicle nel 2012, il regista americano sembra non indovinarne una.