Nicole Garcia torna dietro la macchina da presa, e nei circuiti festivalieri, con Amants, melodramma presentato nella selezione ufficiale del Festival di Venezia 2020 e carico di una rincorsa allo smielato fuori tempo massimo sin dai primi giri di orologio.
Amants, l’ultimo film di Nicole Garcia, è un melodramma privo di tatto
Parigi, Oceania, Ginevra, sono i tre capitoli che tagliano con l’accetta il film dividendolo in tre parti e che scandiscono la relazione tra Lisa (Stacy Martin) e Simon (Pierre Niney), compressi e dilatati come una fisarmonica nel loro separarsi e riacchiapparsi in giro per il globo (quello francofono perlomeno). Nella capitale francese i due sono nel pieno di una passione travolgente che allo spettatore non è mai dato conoscere, data l’assenza di delicatezza di un tocco registico in grado di rendere seducenti i corpi che si abbracciano o sfiorano soltanto, sigillati piuttosto freddamente in inquadrature maldestre senza nessun dono di valorizzazione all’orizzonte.
Improvvisamente però Simon deve partire, scappare, abbandonare quel nido amoroso lasciando indietro la sua vita ed i suoi affetti. È qui che entra in gioco la natura episodica di Amants che fa saltare mesi e anni al racconto, chiamando in causa coincidenze e deus ex machina (ai quali è richiesto davvero una notevole fatica) per ricongiungere le fila e intrecciare assieme le corde dei due amanti che, ovviamente, finiscono ben presto per aggrovigliarsi in maniera fatale. A questo punto, infatti, nell’equazione c’è un terzo parametro (il tempo passa…), Léo (Benoît Magimel), marito di Lisa che finisce rapidamente per rappresentare l’angolo del triangolo indesiderato e da scansare in qualche maniera.
Stacy Martin e Pierre Niney dimenticabili nel dimenticabile Amants
Da queste premesse qui brevemente riassunte rimane facile immaginare i tipi di risvolti che intercettano frontalmente i protagonisti di una storia (dietro la sceneggiatura la regista e Jacques Fieschi) affogata lentamente nei classicissimi stilemi di un melodramma che strozza sé stesso e che tenta di intercettare le sfumature di un noir vecchio stampo, finendo per essere sfiancato dal suo sciuparsi ancor prima di essere consumato. Non che i tre interpreti principali dimostrino di poter mettere una pezza dove dovrebbero, donando sostanza a marionette rigonfie solamente di un immaginario partorito da un romanzo rosa o dalle tormentate aspettative sentimentali di una sedicenne, per di più patinati su uno sfondo piatto da una fotografia (Christophe Beaucarne) priva di qualsiasi spessore e complice nel contribuire a sottrarre brio ad una passione che a noi, ancora, resta ignota.
Troppo semplice affidare ai vari «ci siamo ritrovati», «non ci lasceremo più» il compito di puntellare il quadro di una relazione tanto turbolenta quanto, in teoria, piena di trasporto, come resta complesso digerire scelte che si muovono esclusivamente all’insegna della giustificazione nel “cerchio della vita”, qui portato allo stremo dal tratteggio pesante di una Garcia che fa di tutto per far cambiare canale, se solo si potesse.