Mulan di Niki Caro – con Liu Yifei, Donnie Yen e Jason Scott Lee – è l’ultimo rimpasto live-action disneyano, uscito al ‘modico’ prezzo di 21,99 € che gli utenti di Disney+ dovranno pagare in aggiunta all’abbonamento (“accesso VIP”, lo hanno battezzato), come se il già poco aggiornato catalogo della piattaforma avesse bisogno di compensare un eccessivo investimento nella produzione. Non è neanche comprensibile la necessità di ricoprire parzialmente il budget del film dato che – come è noto – ormai per lo streaming vale il dumasiano ‘uno per tutti’, ma non il ‘tutti per uno’.
MULAN: SU DISNEY+ UN PALLIDO RIFLESSO DI COSE GIÀ VISTE
Hua Mulan (Liu Yifei), giovane ragazza della Cina imperiale, è poco avvezza a ricoprire il ruolo che la società le assegna, garantendole come unico onore quello dell’essere presa in moglie. La protagonista, prima delle due figlie di Hua Zhou (Tzi Ma), fingendosi un uomo, decide di recarsi in guerra al posto del padre malato per contrastare l’arrivo degli invasori dal Nord – adesso non più Unni e in assenza di Shan Yu (spettacolare colpo di scena per avanzare una forma di cambiamento rispetto al classico: viva la fantasia disneyana!).
Tralasciando la disastrosa e poco elegante richiesta in denaro del colosso, che probabilmente guadagnerà molto meno di quanto non avrebbe voluto e perderà anche molti rinnovi, il lungometraggio della Caro si presenta come una riproposizione diversificata dell’originale sotto aspetti assolutamente non sostanziali. Le tematiche del film le si conosce già: la ricerca di sé, l’evasione dallo stereotipo femminile, il tutto adibito con una iniezione di realismo che ormai la Disney lascia solo all’impiego di attori in carne e ossa, senza rimodulare il valore di trama e contenuti.
IN MULAN POCA CGI MA ANCHE POCHE IDEE
Onore al merito per aver evitato un eccesso di CGI (a parte gli inutili coniglietti che corrono con Mulan), ma compensando questa unica possibile nota positiva con la totale assenza di una coerenza della pseudo-neo-trama, con un eccedente sbilanciamento verso la politica di genere che produce un ridicolizzante effetto di apoteosi della protagonista.
Com’era bella ed elegante la Mulan del 1998, ovviamente inimitabile, anche se Liu Yifei ha una sua meravigliosa e invidiabile finezza. E se manca il simpatico draghetto Mushu, a sostituirlo c’è una sua evoluzione in fenice che, insieme ad altre specie differenziate di volatili piumati, sono un elemento ricorrente in Mulan.
L’introduzione del personaggio di Xian Lang (Gong Li) si interseca in questo paradigma dei volatili. Donna guerriera e indipendente che, per essere evasa dalla sua predestinazione sociale al pari di Mulan, viene tacciata di stregoneria; Xian Lang ha la dote di trasformarsi in un’aquila, ma anche di possedere letteralmente le sue vittime (spesso di genere maschile). La donna-strega che si trasforma in uccello, che ‘entra’ in altri uomini per possederli magicamente avrebbe di certo intrattenuto un buon numero di rappresentanti della corrente psicoanalitica che si sarebbero ben destreggiati in interpretazioni simboliche fallo-maniacali.
DISNEY COME L’ASINO DI BURIDANO
Ormai, la Disney non sa più che pesci prendere, tenta di riplasmare gli originali ma senza allontanarsene troppo: ed è proprio questa via di mezzo che induce la morte di ogni senso e valore nelle ultime produzioni, proprio come succede nel paradosso dell’asino di Buridano che, indeciso su quale di due identici mucchi di fieno mangiare, nella paralisi generata dall’indecisione, muore di fame.
L’impero Disney, trascorsi ormai i tempi d’oro, non è più capace di determinarsi e di prendere posizione, fin troppo occupato a intercettare per evidenti questioni di mercato gli interessi di quel pubblico di tutte le età che prima riusciva ad ammaliare in maniera semplice, senza troppe sofisticherie. La trama di Mulan, così, si trascina e stride con giusto un paio di momenti nutriti da un lieve pathos, sempre nell’eterna tensione fra il vecchio e il nuovo che non colloca il nuovo prodotto da nessuna parte. Non si è lasciato neanche il piacere delle canzoni classiche allo spettatore, cosa che almeno Il Re Leone (2019) e Aladdin (2019) erano riusciti a fare (sempre a modo loro).
LA MEDIOCRITÀ ARTISTICA DELLA NUOVA DISNEY E LE (POCHE) SPERANZE PER IL FUTURO
Dunque, un piccolo disastro, ma elegante perché in fondo i costumi e i contrasti cromatici delle scenografia sono sempre godibili. L’unica cosa che non si butta del film sono i titoli di coda, bel lavoro di grafica, ma anche in quel caso rovinati dalla canzone finale assolutamente incomprensibile e inaudibile (in italiano interpretata da Carmen Consoli). Insomma, ultimamente la Disney – se dissociata dalla Pixar – non fa altro che mettere tante belle cose insieme, per poterle rovinare sapientemente. Si lasci questo Mulan alla mera fruizione estetico-spettacolare delle nuove generazioni, perché i valori da trasmettere nel film di certo non scompaiono, ma il problema è che manca lo stile con cui vengono proposti.
Erano risultati così ben impacchettati Saving Mr. Banks (2013), in qualche modo anche Maleficent (2014) e con le loro difficoltà Into the Woods (2014) e Ritorno al bosco dei 100 Acri (2018), ma ora la parabola discendente è arrivata al limite; forse solo la Pixar e la serialità televisiva potranno dare una buona spinta in risalita da questo vorticoso buco nero in cui Disney si è andata a cacciare. È il bivio della crisi, per cui è necessario decidere cosa fare: o risalire o morire in via definitiva. Di questa agonia creativa non se ne può più.