Dall’Australia arriva al Festival di Venezia 2020 un western duro e crudo sulla febbre dell’oro, The Furnace, girato proprio negli sconfinati deserti dell’isola più grande dell’Oceania.
Scritto e diretto dall’esordiente Roderick MacKay, il film selezionato nel concorso Orizzonti apre all’insegna di un fucile che si inceppa e fallisce lì dove riesce una primitiva lancia indigena, in un contrasto di culture e tecnologie pronto a fare di quella sconfinata landa di terra e sabbia il luogo ideale per stabilire nuove coordinate, dove reietti e galeotti da ogni parte del globo trovano un territorio arido nel quale ripartire o, nel peggiore dei casi, pronto a bere il sangue di chi soccombe.
Il viaggio quasi tolkieniano di The Furnace
«Quaggiù non c’è dio, solo la terra e il bottino che ti offre» afferma Mal (David Wenham), compagno senza passato dell’indiano Hanif (Ahmed Malek) durante la loro ricerca della fornace dove poter fondere l’oro marchiato a fuoco con il sigillo reale dell’impero britannico, in un viaggio scandito dalle pochissime pallottole esplose ma che ogni volta ritmano come un tamburo la progressiva discesa in inferi sempre più profondi.
L’impervio percorso battuto dal duo costretto alla convivenza ricorda quello di due Frodo e Sam in marcia verso la mefistofelica Mordor, con il fardello dell’oro che corrompe l’animo e inasprisce la morale già fiaccata dalla barbarie e dalla mancanza d’acqua. Persino la fornace che attende alla fine del viaggio assume i contorni di un Monte Fato dove occorre lanciare dentro qualcosa perché venga distrutto o cambi forma, capace anche di catturare la natura di elemento mistico e mitologico della Luce del The Lighthouse di Robert Eggers, ipnotica, essenziale e micidiale nell’istante in cui si osa di entrarvi a diretto contatto perché bramosi di desiderio.
Il film di Roderick MacKay manca dell’adeguato carattere
Sulla carta The Furnace possiede tutti i tasselli giusti per potersi presentare nel migliore dei modi nel corso delle sue quasi due ore di lunghezza, mancando però di carattere in tre aspetti fondamentali. Per prima la regia, che difetta in maturità e finisce per stare sempre un passo indietro rispetto a ciò che accade ai suoi personaggi, osservandoli o troppo da vicino o troppo da lontano, finendo per appiattirli sugli sterminati fondali sabbiosi nel corso del tempo. Il secondo punto è proprio sui protagonisti, con il solo Wenham all’altezza del ruolo che non trova il giusto controbilanciamento nella sua spalla di viaggio e manca del tutto nella rappresentazione della legge di frontiera nei panni degli aguzzini inseguitori capitanati dal sergente Shaw di Jay Ryan. Infine, de Il Signore degli Anelli e di The Lighthouse non ha assolutamente la fascinazione visiva, privando questo sconfinato deserto della sua attrazione brutale e primordiale che non viene mai catturata dalla fotografia anonima di Michael McDermott. Quella di The Furnace è in sostanza un’occasione sfruttata a metà, in grado di toccare e muovere le giuste corde pur non infondendole dell’adeguato carattere necessario a contraddistinguerlo.