Reduce dal lavoro svolto con Alfonso Cuarón in Roma (che l’ha espressamente voluto al suo fianco), Chaitanya Tamhane pone la firma su The Disciple, il suo nuovo film presentato all’interno del concorso ufficiale del Festival di Venezia 2020 e tra i quali produttori esecutivi spicca proprio il nome del regista messicano premio Oscar.
The Disciple, il film di Venezia 77 prodotto da Alfonso Cuarón
Seconda regia dopo il Court (2014) vincitore del premio al Miglior Film proprio a Venezia nella sezione Orizzonti, The Disciple si configura come un’opera più complessa e stratificata rispetto alla precedente, emanata poco alla volta tramite un’azione di cerchi concentrici che immergono in un viaggio all’interno della musica tradizionale indiana. Un percorso all’insegna dell’ipnotica melodia dei rāqa, le composizioni musicali che assolvono il compito di un mantra declinato nelle mille sfumature alle quali accedere solo tramite pratica e concentrazione dai caratteri quasi ascetici.
Quantomeno questo è il voto che fa Sharad, che consacra sé stesso al continuo apprendimento della forma, dei modelli, della giusta intonazione di una musica classica indiana alla quale è iniziato sin dalla gioventù dal padre, cantante di mediocre valore che eppure ritorna lungo tutto il corso del girato come una sorta di guida dalla quale tenersi a debita distanza ma non perdendola mai realmente di vista. Un po’ come fa lo stesso Tamhane, che si avvicina lentamente e sempre con delicatezza (non priva di spiccata ironia in alcuni frangenti) all’oggetto musicale tramite il malinconico accostamento a Sharad, spaziando all’interno degli ambienti che dimostrano di presentare ancora la lucidità di una costruzione della messa in scena che fa metà del lavoro nel sostentare la struttura della composizione, stavolta filmica (non è un caso che Cuarón abbia proprio lui per aiutarlo nel suo lavoro).
The Disciple di Chaitanya Tamhane è un film ostico ma ricco di spunti
Aspetto tra i più interessanti di The Disciple è lo sguardo che riserva al ruolo della tecnologia, che nel racconto che spazia avanti e indietro per un lasso di tempo di circa vent’anni ne mostra e sfrutta le varie evoluzioni, creando un dialogo dove il medium tecnologico si presa ad un’azione di riconfigurazione della colonna portante del film, la musica, filtrata e rimaneggiata attraverso un’opera quasi archivistic0-archeologica di trasposizione di formati e supporti riproducibili. È quasi un cortocircuito impossibile da mettere in fase quello in cui Tamhane costringe il suo Sharad, destinato da una parte alla sacra missione dello studio di una dimensione sinfonica antica e poco documentata, dall’altra teso a una rincorsa al successo (tra i flash dei reality e dei video YouTube) che non rinuncia all’utilizzo di espedienti ai quali solo i nuovi orizzonti dell’informatizzazione possono dare accesso.
Creatura ostica da assimilare The Disciple, a metà di un orizzonte che considera un binomio apparentemente inconciliabile come la terra grigia di un protagonista il cui progressivo inasprimento delle illusioni si avverte tutto, seppur con alcune opacità che tendono a dilatare eccessivamente alcuni snodi di una creatura che fa della sua sostanza ritmica materia mutevole e multiforme.
The Disciple: a Venezia il film indiano prodotto da Alfonso Cuarón [recensione]