Partorito nel pieno della vertigine di una nazione preda di tensione sociale com’è la Francia ferita degli ultimi anni, The Third War (titolo internazionale per La Troisième Guerre) è un film che ben riflette su quelli che sono i risvolti di un Paese costretto a vivere all’ombra di una minaccia invisibile come quella del terrorismo, a cui rispondere arroccandosi su sé stessi e tirando fendenti all’aria.
Giovanni Aloi esordisce al lungometraggio con The Third War
L’esordio nel lungometraggio di finzione di Giovanni Aloi è presente in concorso nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2020 e lavora con acume nel seguire una delle tante pattuglie di soldati chiamati ad agire non nei profondi ventri di conflitti dall’altra parte del mondo (ad un personaggio in particolare è affidata la chiave della mitizzazione di una guerra esotica), bensì nel cuore urbano delle città del proprio stato.
È infatti Parigi il teso teatro dove Léo esce di pattuglia assieme alla propria squadra nelle molte e oramai quotidiane (un po’ per tutta l’Europa a dire il vero) missioni di ronda atte al monitorare gli obiettivi sensibili della capitale francese. E il volto di Anthony Bajon, che presta le fattezze al ragazzo, è il perfetto terreno di contraddizione che alla morbidezza di rotondi tratti da fanciullo ancora acerbo risponde con la pesante bardatura di una divisa mimetica coperta da giubbotto antiproiettile e pesanti armamenti.
Quello di Léo, appena uscito dall’accademia militare, è una generazione che la guerra la vive solamente dentro ai codici dei videogiochi e sparando attraverso i controller di una console, geneticamente non pronta all’essere buttata nella mischia di scontri che sono scariche nervose sull’epidermide di gruppi di camerati maturati nel pieno dell’azione latente e subdola dei disumani atti terroristici compiuti da organizzazioni come quelle di Daesh.
La vertigine delle città militarizzate ai tempi del terrorismo
Tutto è una minaccia e allo stesso tempo niente lo è nella pancia di città che hanno assorbito come fisiologica la presenza di soldati armati per le loro strade, per questo la metodicità del tirare calci ai cassonetti come fa il personaggio di Karim Leklou assume la valenza di una disperata presa di significato che è riscatto di chi è cresciuto addestrato ad immaginare gli aridi scenari di guerra di lande lontane come, magari, quelle del Mali.
E nonostante il comandante di battaglione continui a ripetere costantemente che «siamo in guerra» e che è necessario comportarsi di conseguenza, gli unici obiettivi nei confronti dei quali puntare il dito sono i bip lampeggianti di trapani in carica o piccoli spacciatori di quartiere, in una crescente tendenza all’isterismo che monta dietro la mancanza di uno scopo da visualizzare e personificare. La guerra da combattere di The Third War è quella all’inadeguatezza dello stare al mondo con un’arma carica in mano e non sapere dove poterla puntare in un contesto che da amico è costretto a divenire ostile, portando inevitabilmente al premere il grilletto come unica valvola di salvezza mentale.