Ratched è una serie TV Netflix in 8 episodi ideata da Evan Romansky e Ryan Murphy (Nip/Tuck, American Horror Story, Glee, American Crime Story, Pose, Hollywood), che qui fa anche da regista. Nel cast Sarah Paulson (anche co-produttrice), Judy Davis, Finn Wittrock e Sharon Stone, per una storia basata sulle origini della omonima infermiera di Qualcuno volò sul nido del cuculo. L’opera, nata dalla penna di Ken Kesey, fu di ispirazione per il celebre adattamento cinematografico di Miloš Forman con Jack Nicholson, film che si aggiudicò 5 premi Oscar.
UN’INFERMIERA, UNA CLINICA PSICHIATRICA E INTENTI POCO NOBILI
La serie rappresenta una sorta di prequel di Qualcuno volò sul nido del cuculo, narrando le origini dell’infernale infermiera Mildred Ratched (Sarah Paulson). Nel clima socio-culturale statunitense del 1947, la protagonista è disposta a fare di tutto pur di entrare a lavorare nella clinica psichiatrica gestita dal dott. Richard Hanover (Jon Jon Briones), i cui esperimenti “visionari” sui pazienti lasciano eticamente a desiderare. Di contro alle ostilità e alla diffidenza dell’infermiera Betsy Bucket (Judy Davis), Ratched riuscirà a ingraziarsi il direttore entrando a far parte del personale, per poter realizzare i misteriosi intenti che l’hanno indotta ad addentrarsi nella clinica.
UNA FOTOGRAFIA PERFETTA PER LA MITOGENESI DEL VILLAIN
La serie di Murphy si inserisce nel filone relativo all’ontogenesi dei villain psicopatici (ultimo dei quali Joker di Philips), scavando nel bisogno dell’immaginario collettivo e restituendo una vera e propria mitopoiesi; perché, è giusto dirselo, il cattivo affascina e ancora di più la necessità di spingersi nelle pieghe biografiche di una umanità contorta, per scovare le origini del male.
Murphy riesce a farlo, grazie alla sua musa ispiratrice Sarah Paulson cha dà una prova attoriale notevole, con il suo carisma, il suo sguardo sempre carico che rende a pieno la doppiezza e l’ambivalenza emotiva della protagonista, una caratteristica, quest’ultima, che contraddistingue pienamente tutti i personaggi della serie.
A vincere, tuttavia, non è tanto la messa in scena degli attori, ma il contesto che a questi si fornisce. Infatti, insieme alla scenografia – meticolosamente curata ai limiti del maniacale – si ha una fotografia priva di sbavature e una colonna sonora eternamente tesa, che non abbandona mai lo spettatore inducendogli uno stato di perenne tensione.
UNA PERTURBANTE AMBIENTAZIONE PER RATCHED
Com’era stato per alcuni aspetti di American Horror Story, il senso del lugubre e dell’ambiguo, possono, paradossalmente, essere resi anche con l’utilizzo di un eccesso di toni forti, incisivi che lasciano trapelare il senso dell’irreale, quasi da delirio psicotico, di un maniacale senso dell’ordine che da solo sembra dire “c’è qualcosa che non va”. Così, la fotografia restituisce il senso dell’orrorifico, del minaccioso che incombe mediante ampi, alti e spioventi spazi resi dalle inquadrature.
Emergono con forza i colori dell’America degli anni ’40, dell’America dopo la guerra, spesso in uno stile minimalista che serve a rendere ciò che gli ambienti non palesano, inscenando una vera e propria metonimia della psiche.
Essenziale è anche il coordinamento tra musiche e l’uso scenografico di colorazioni archetipiche, con variazioni cromatiche forti, di tinte che conferiscono il tono di una pièce teatrale. Questo contorno meticolosamente curato, infatti, rievoca il teatro e il tragico di cui esso è originariamente portatore, come tragica è la vita del folle, qui sottilmente oggetto della serie, proprio come emerge dalla sceneggiatura decisa, caratterizzata da dialoghi forti, densi e concisi.
IL FILO DI RATCHED
In questo quadro complessivo si colloca Mildred Ratched, apparentemente perfetta, curata nei minimi particolari, immacolata e intoccabile, granitica. Tutti elementi che, a primo impatto, servono a rendere l’idea di un maniacale genio del male, i cui atti sono impossibili da incriminare data la minuzia con cui maschera le prove che rendono impossibile ricondurre a lei la colpevolezza. Proprio come mostra la sigla iniziale in cui il file rouge porta al colpevole solo tramite percorsi tortuosi, inimmaginabili, labirintici e distrattivi ma comunque inarrivabili, perché alla fine del filo c’è l’insospettabile e dolce infermiera pronta a tagliare il filo.
A rendere tutto questo possibile è l’interpretazione curata della Paulson che si accosta ad altre buone prove attoriali, come quella di Judy Davis, uno contraltare così potente da rappresentare un’antitesi perfetta e polarizzata della protagonista, tanto da garantire una corrispondenza simmetrica. Insieme alle due, a comporre un interessante trittico attoriale al femminile, c’è Sharon Stone a sostituire Jessica Lange (mai più tornata con Murphy in American Horror Story), la quale non fornisce una nuova dimensione allo stile tipico del personaggio perfido e fascinoso (nello specifico una ricca ereditiera che vive in un lusso barocco dalle evocazioni orientali), tuttavia facendo comunque funzionare l’accoppiata con la Paulson.
In ogni caso, nella follia rappresentativa e registica di Murphy (e del suo socio Brad Falchuk qui non presente), spesso si avverte l’idea del perturbante nella scelta del cast. Un cast fisso, noto e attorialmente versatile; infatti, in Ratched c’è anche Finn Wittrock, volto noto di American Horror Story.
LO SCONVOLGIMENTO ETICO DELLA RATCHED DI MURPHY
Tutto questo è funzionale a Murphy in varie modalità. Innanzitutto, per rendere il senso di un’epoca, di un contesto, di un certo modo di pensare e di vedere le cose, soprattutto le malattie psichiche e le modalità con cui esse venivano “curate” nella prima metà del XX secolo. Da qui, l’idea di una normalità deviata e ancora poco incline ad accettare il senso della diversità che reputa addirittura il lesbismo una malattia. Un problema vecchio e annoso della psicologica clinica: nel tentativo di etichettare e classificare gli stati mentali, i disturbi e le patologie si tende a creare la malattia stessa. Il dilemma etico posto in gioco in Ratched tende ad amplificarsi all’ennesima potenza, stratificandosi a causa del pesante ingarbuglio tra il reale e l’irreale, fra l’ordinario e lo psicotico.
E se Ratched appare come un male in terra per ciò che fa e per come agisce, tuttavia, lentamente, grazie a processi di immedesimazione empatica dello spettatore messi in atto nei confronti della protagonista, quindi dei motivi che la inducono a compiere determinati atti e a mettere in moto machiavellici meccanismi, proprio qui entra in gioco quella importante funzione dell’indagine ontogenetica del villain. Ratched è così perché la pesantezza di esperienza passate l’ha indotta a comportamenti spesso amorali, a doversi difendere dalle insidie della vita, imparando a calcolare e ad agire per autodifesa.
Così, il mezzo si confonde con il fine, il bene con il male in un capovolgimento etico che subordina ogni principio allo scopo. Tuttavia – qui la mossa interessante che riscatta eticamente quasi tutti i personaggi – al di là dello scopo, il male radicale, quindi il male vero, non si manifesta perché non è totalizzante, ma solo orientato al raggiungimento di un obiettivo (spesso anche nobile). Nonostante questa posizione risulti essere comunque eticamente discutibile (se sia legittimo compiere il male per perseguire il bene), in ogni caso, in Ratched tutto ciò che può essere evitato come “male” viene volontariamente lasciato alle cure del bene. Quella cura che, in fondo, un’infermiera assume deontologicamente, ma di cui si fa anche carico emotivamente. In fondo, Mildred Ratched è così: né angelo, né diavolo ma terribilmente, semplicemente e fragilmente umana.