Sono passati 45 anni dall’uscita nelle sale di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, presentato a Parigi poche settimane dopo la morte del regista. Ma a rendere l’opera un caso non fu solo l’omicidio irrisolto di Ostia, quanto la forza dell’immagine, del racconto e della metafora visiva messa in piedi dal regista bolognese. Salò, ovvero quello che doveva essere il primo film della “Trilogia della morte”, rimane ancora oggi un film inimitabile, irripetibile e capace di rimanere uno “scandalo” anche a decenni dalla sua uscita.
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA: L’EREDITÀ DEL CAPOLAVORO DI PASOLINI
Qualche anno fa abbiamo avuto la fortuna di sederci a un tavolo con il grande regista Olivier Assayas; l’occasione era l’uscita del meraviglioso Personal Shopper, ma per qualche ragione, mentre divagavamo, siamo finiti proprio a parlare del film di Pasolini in relazione a una delle prime opere di Assayas, Demonlover:
La connessione esiste, nel senso che ho un’immensa ammirazione per Pasolini e sicuramente nella mia filmografia è presente una pellicola dove ho provato a seguire la direzione di ciò che mi disturba di più, nella visione e nell’immaginazione dell’evoluzione del mondo. Anche in modo politico. Devo dire che sono reminiscenze di quello che ha fatto Pasolini in maniera geniale in un film come Salò.
La distanza temporale dall’uscita del film di Pasolini ci permette, sulla scorta delle parole di Assayas, di riflettere sul lascito di un’opera simile. È vero che Salò o le 120 giornate di Sodoma è un film irripetibile e unico, da un lato per la pellicola in sé dall’altro per la controversissima figura di Pier Paolo Pasolini, mai veramente accettato quando era in vita dal panorama culturale italiano. A tal proposito, ricordiamo il celebre elogio dell’amico Alberto Moravia:
Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo.
È pur vero però che Salò o le 120 giornate di Sodoma è servito come ispirazione per tanti cineasti, come una sorta di “garanzia” che un cinema del genere, libero ed “estremo”, fosse possibile e che soprattutto potesse essere assorbito anche dal grande pubblico. Perché l’ultimo film di Pasolini è la sua opera più famosa e celebre, quella da cui chi si avvicina al poeta affezionato a Casarsa tende a partire. Questo ovviamente, come vedremo nel prossimo paragrafo, non è per nulla un caso: Salò in superficie è un film “semplice”, sono le immagini a renderlo complesso.
SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA È LA QUINTESSENZA DEL CREDO PASOLINIANO DEL “DIRITTO A SCANDALIZZARE”
Pier Paolo Pasolini è sempre stato il contrario di un uomo banale, nel senso che reputava ogni singola possibilità di esprimere un pensiero importante e così ha vissuto tutta la sua “vita pubblica”. Egli non ha mai scritto un articolo superficiale, non ha mai lasciato nulla al caso. Non è mai stato, appunto, “banale”. Proprio nella sua ultima intervista del 1975 al programma francese Dix de Der, il regista ha sintetizzato, involontariamente, tutto il suo pensiero con le seguenti parole: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista”.
Lo “scandalo” de Salò o le 120 giornate di Sodoma risiede nella crudezza delle immagini. L’ultima opera di Pasolini, da un punto di vista “simbolico” è una delle più semplici da comprendere: il luogo in cui è ambientata – che è nel titolo – ha un chiaro riferimento storico, così come sono chiari e nitidi le personificazione del potere che vessano i giovani; un duca, un monsignore, un vescovo e un giudice, ovvero il potere dinastico, economico, religioso e giudiziario.
È inoltre chiaro il riferimento dantesco che fa sì che il film sia diviso in quattro parti: un “antinferno”, poi un girone delle manie, un girone della merda e un girone del sangue. Il primo girone vede i potenti eccitarsi dai racconti delle ex meretrici, nel secondo le giovani vittime si trovano costrette a mangiare le proprie feci e il terzo girono, quello che conclude le 120 giornate, comprende la morte delle vittime a seguito di varie sevizie e torture.
Dunque, Salò è un film apparentemente molto “chiaro”. Il potere classico fascista, quello borghese, quello delle storiche istituzioni italiane – le grandi famiglie, gli industriali, il clero e i giudici – soffoca i giovani antifascisti che non hanno alcuna possibilità di ribellione. Questi ultimi desiderano morire, ma i quattro vessatori spiegano che non vogliono in alcun modo ucciderli. Per il potere la villa è piacere, per i soggiogati è invece puro dolore. Da una parte c’è la crudeltà degli anziani fascisti, brutti e ben vestiti, dall’altra c’è il candore dei giovani, poveri e belli.
COME PASOLINI HA RAPPRESENTATO LA PARTE PIÙ OSCURA DEL POTERE TOTALITARIO
Ciò che rende indimenticabile Salò o le 120 giornate di Sodoma – nel bene e nel male – sono dunque le immagini che Pasolini e un gruppo di attori hanno avuto il coraggio di scrivere – il primo – e di recitare – i secondi -. Tante volte abbiamo visto film che raccontavano come il potere dei regimi totalitari abbia vessato centinaia di migliaia di uomini e donne, eppure non abbiamo – e ai tempi non avevano – mai visto una cosa del genere.
Anziché rappresentare il rapporto “oppressori – oppressi” tramite vicende e fatti che potremmo chiamare “canonici” – come possono essere i bellissimi scritti autobiografici di Primo Levi sulla prigionia nazista, per esempio – Pasolini mette in scena uno stupro continuo che accade nel buio, nell’oscurità. Salò è dunque un racconto per immagini del potere quando esso si mostra nella sua peggiore forma: l’imposizione sull’altro ai fini del piacere. I nazisti fucilavano gli ebrei nei campi di concentramento anche per dimostrare agli altri detenuti quali fossero le conseguenze in caso di mancata obbedienza, ovvero come il potere, tramite l’esercizio di se stesso, potesse perpetuarsi e mantenere il proprio status.
La villa di Salò invece è un luogo dove il potere non deve dimostrare la propria impunibilità. Non c’è nessuno a osservarli, così come le vittime non avranno possibilità di raccontare ciò che hanno visto e subito. Ciò che succede in quelle stanze non è un monito per nessuno se non per gli occhi e i “palati” di chi il potere già lo detiene. I quattro gironi sono dunque puro piacere, senza “secondi fini”.
In conclusione Salò o le 120 giornate di Sodoma è semplice da decifrare in termini “allegorici”, ma complesso nella rappresentazione del potere e di come esso opprima gli indifesi. Come diceva Assayas, dunque, il film di Pasolini è “ciò che disturba di più, nella visione e nell’immaginazione dell’evoluzione del mondo”. Ragion per cui non possiamo che consigliarvi la nuova straordinaria edizione home video curata da CG Entertainment, che oltre a un eccellente remaster del film vede un ricchissimo corredo di contenuti speciali (backstage; Pier Paolo Pasolini: l’intervista sotto l’albero e il mini-doc Salò, l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini).