L’impresa nella quale si sono andati a cacciare il regista Ben Wheatley e il suo manipolo di sceneggiatori (Jane Goldman, Joe Shrapnel, Anna Waterhouse) è di quelle che hanno il sapore dell’atto proibito perché quasi sacrilego e titanico già in partenza. Dopotutto la storia cinematografica di Rebecca è ben nota: adattata a partire dall’omonimo bestseller gotico di Daphne du Maurier per arrivare sul grande schermo (per la prima e unica volta considerando che la versione contemporanea di cui si sta parlando è prodotta dalla Working Title Films per la distribuzione di Netflix) ad opera del maestro del brivido Alfred Hitchcock, al suo primo lavoro in terra statunitense – siamo nel 1940.
E nonostante il leggendario regista inglese abbia sempre manifestato un certo scetticismo nei confronti di questo suo primo sforzo oltreoceano, considerato da egli stesso un film “non di Hitchcock”, è anche l’unica pellicola che porta la sua firma a essersi aggiudicata ai tempi due statuette agli Oscar – Miglior film e Miglior fotografia. Sorvolando inoltre rapidamente sui diversi tentativi di trasposizione televisiva del romanzo, appare quindi già da questi brevi accenni la natura impervia dell’andare a confrontarsi con una pietra miliare della storia del cinema, forse tra le meno scintillanti ma comunque in grado di eclissare sul nascere con l’ingombrante ombra del confronto qualsiasi nuova volontà di raccontare ancora la storia di Maxime e Mrs. de Winter.
Il plot infatti è risaputo: la storia che inizialmente appare da favola tra una dama da compagnia di una ricca signora che in quel di Montecarlo attira le attenzioni del nobile Mr. de Winter, il quale ben presto le propone di sposarlo e di trasferirsi con lui nella regale tenuta inglese di Manderley. Però qui qualcosa aleggia tra le pareti delle immense e fredde sale della magione, ovvero lo spettro dell’apparentemente adorata e defunta ex moglie di Maxime, appunto Rebecca, impressa a fuoco nei ricordi di tutti coloro che l’hanno conosciuta, specialmente in quelli della fredda governante Mrs. Danvers.
Rebecca gode quindi di una molteplice natura di fondo, un’opera che si sposta in diversi angoli della composizione filmica a partire dalla costruzione fiabesca e romantica, per declinare progressivamente nel thriller-noir psicologico fortemente psicotico, sfiorando infine anche una consistente porzione di indagine e ricostruzione dei vari accadimenti della trama. La forza della pellicola di Hitchcock era nel governare questo giano bifronte tramite la forza sfaccettata dei propri interpreti (gli iconici Joan Fontaine, Laurence Olivier e Judith Anderson), mutevoli, vulnerabili, indecifrabili, di volta in volta modellati sulla forma che assumeva la creatura che emergeva nella sempre più terrificante Manderley, l’altro vero protagonista.
Ed è forse proprio su questi, gli interpreti, che si accusa il primo grande e vero mancamento del nuovo adattamento di Wheatley, che vede prendere i panni dei tre personaggi principali da Armie Hammer, Lily James e Kristin Scott Thomas. Il primo è forse la nota più tristemente dolente, che nell’assumere il ruolo di Maxime non riesce mai a indossare la complessità del tormento di un marito sospeso in un ricordo la cui vera matrice rimane insondabile fino all’ultimo atto del film, complice anche la bellezza statuaria di Hammer che lo sposta un po’ troppo verso il principe da “fairy tale” e mai dalle parti di un’anima frammentata. Purtroppo nemmeno Lily James riesce a catturare l’equivocità della seconda e indesiderata Mrs. de Winter, una figura fanciullesca che cede ben presto il passo dal disincanto alla tensione del vivere fuori luogo e sotto l’oppressione di due figure “materne” imperanti direttamente e indirettamente (la governante e la moglie defunta), cercando di seguire le orme della Fontaine senza tuttavia riuscire mai ad imprimere spessore al disagio del proprio personaggio.
La più in forma del terzetto è forse proprio la Thomas nel costruire una Mrs. Danvers tagliente e dallo sguardo glaciale come gli abissi del mare, una versione maggiormente reinventata rispetto a quanto fatto dagli altri due attori seppur privata in parte dalla regia – che la rende più mobile – di quel carattere sovrannaturale che nell’opera del 1940 la vedeva apparire nei luoghi e mai camminare come un comune essere umano.
Difatti è anche nel lavoro di Wheatley che risiedono colpe nel non saper conferire una dimensione vera e propria a questo Rebecca, spostato eccessivamente nell’orizzonte del melenso dove a essere ingombrante più del dovuto è il sentimento d’amore che pervade eccessivamente con tinte rosa anche i frangenti ai quali dovrebbe essere affidato un carattere più oscuro e funereo. Così come tutti i momenti simbolo che vengono riproposti nel film sono incipriati e ricoperti da un profondo strato di cerone, una patina spessa di fattura esplicitamente fasulla che inciampa nel decorare la buona confezione di un remake che riconosce un po’ troppo di essere tale e che a causa di ciò non riesce mai a smarcarsi dalle ombre alte sotto le quali si offusca. Un’opera derivativa e priva di reali idee in grado di renderla come valido adattamento moderno di un film che, a distanza di ottant’anni, riesce a difendere la propria modernità da sé.