The Vast of Night (2019) – distribuito da Amazon Prime Video con il titolo italiano L’immensità della notte – è un film di fantascienza che segna l’esordio di Andrew Patterson. Il regista si è dedicato al progetto dal 2016 autoproducendolo e lavorando allo script con lo pseudonimo di James Montague, insieme al socio Craid D. Sander.
Girato tra le tre e le quattro settimane, con un budget di soli 700.000 dollari, il film è stato presentato in anteprima allo Slamdance Film Festival del 2019 vincendo il premio come miglior film narrativo per poi aggiudicarsi vari riconoscimenti nello stesso anno all’Overlook Film Festival, all’Indipendent Spirit Awards e all’Edinburgh International Film Festival. Il cast, notevolmente ridotto, conta una serie di attori quasi ignoti al pubblico fra i quali Sierra McCormick, Jake Horowitz e Gail Cronauer.
THE VAST OF NIGHT: LO SCI-FI ANNI ’50 TRA RADIO, CINEMA E UFO
Negli anni ’50, Fay (Sierra McCormick) e il suo amico radiofonista Everett (Jake Horowitz) intercettano uno strano segnale, mentre tutta la popolazione di Cayuga (New Mexico) è coinvolta nella partita di basket nella palestra comunale. Nella quiete notturna, i due iniziano a indagare per capire la provenienza del segnale, per poi essere contattati dal misterioso “Billy” (Bruce Davis) che, avendo riconosciuto il rumore alla radio, chiama per raccontare di alcuni inquietanti eventi in cui era stato precedentemente coinvolto.
L’OPERA PRIMA DI PATTERSON CAVALCA CON SOBRIETÀ L’ONDA VINTAGE
Per il suo debutto, Patterson decide di cavalcare la fortunata vintage-wave con un soggetto cinematografico più che ricorrente, che richiede una ridefinizione di sceneggiatura e regia per poter competere con uno stile cinematografico da qualche anno abusato. Tuttavia, per essere un’opera prima, The Vast of Night sa ben destreggiarsi utilizzando un dinamismo incalzante che coordina in modo ottimale la fotografia, il movimento rapsodico della telecamera, gli stacchi fra le sequenze e interessanti epifanie sonore.
Patterson, così, tenta una revisione del tema mediante una sua propria grammatica di regia, ma il possibile rischio è soprattutto da riferirsi a inquadrature fisse prolungate e allo schermo che non poche volte dissolve verso il buio totale. Un pericolo arginato grazie a una buona recitazione, fosse anche la sola voce di “Billy” che fa leva sul coinvolgimento emotivo mediante uno storytelling tenebroso e perturbante, quasi kinghiano.
IN THE VAST OF NIGHT UNA META-NARRAZIONE IN CUI L’OSCURITÀ DIVENTA PROTAGONISTA
The Vast of Night è messa in atto un’operazione interessante di mise en abyme che ha come oggetto la narrazione stessa. Partendo dall’apertura meta-filmica in cui un televisore anni ‘50 a tubo catodico propone lo stesso The vast of night, l’obiettivo entra zoomando per poi alternare tra i due piani: tra bianco-nero e colori, fra antico e moderno, tra illusione e realtà.
La profondità narrativa, però, non si ferma su questo primo livello: se c’è lo spettatore che guarda “il film nel film”, c’è poi la radio e, nell’intercettamento radiofonico, la narrazione sostenuta dalla voce di “Billy” accompagnata dalla regia verso un buio per dissolvenza, mentre la voce alla radio permane – e il caso di dirlo – nell’immensità della notte. È un capovolgimento interessante, quello di Patterson, che decide di fare dell’oscurità la protagonista del suo lungometraggio, rinunciando all’utilizzo scenografico di una luce piena.
UN FILM I CUI TONI SONO UN OMAGGIO ALL’IMMAGINARIO SCI-FI RETRÒ
Un riconoscimento va al direttore della fotografia (Miguel Ioann Littin Menz) e alla buona combinazione di lavoro con la regia, perché gli anni ’50 non si esauriscono nella scenografia ma nella resa di un’atmosfera che la direzione di Patterson riesce a restituire attraverso varie forme, non ultima quella di uno splendido piano sequenza che mediante l’immagine introduce la svolta narrativa. Con degli effetti speciali rétro, la regia dipinge un quadro anni ‘50 che fa del vintage stesso il tema e a cui va una dedica nostalgica e sentita. Di fatti, come lo stesso Patterson ha affermato, le idee base del progetto sono state poche e definite: “1950, bianco e nero. New Mexico, atterraggio degli UFO”.
Nella sua semplicità, il “back to vintage” si presenta come un ritorno all’essenza, una sorta di bisogno malinconico reso nella forma di una poesia decadente più che in una trovata per fare mercato, riaffermando il valore del cinema come arte di contro a una sua volgare mercificazione.