Vedendo l’ottimo His House, film horror dalle sfumature sociali distribuito da Netflix, è impossibile non pensare a quella apparentemente sottile ma in realtà abissale differenza che separa il concetto di “home” da quello di “house”, in merito alla quale ci ha adeguatamente istruito la Fern del Leone d’Oro 2020 Nomadland. Lo splendido personaggio impersonato da una altrettanto meravigliosa Frances McDormand sottolineava chiaramente come il concetto di casa, del sentirsi “at home”, non faccia necessariamente affidamento al mettere radici all’interno di uno spazio delimitato fisicamente da quattro mura. È più che altro un avvertire in maniera fluida, mobile, il proprio senso di appartenenza e di riconoscersi compiuti anche ritrovandosi costantemente in movimento a bordo di furgoncini mezzi scassati come lo era a-van-guard, il pick-up che la nomade del ventunesimo secolo del film di Chloé Zhao curava e abbelliva con perizia in ogni suo dettaglio.
His House è tra gli horror più validi distribuiti recentemente da Netflix
Per questa ragione parlando di His House è interessante partire proprio dal titolo del nuovo film horror apparso (abbastanza in sordina a dire il vero) all’interno del catalogo Netflix, in modo tale da comprendere sin da subito il portato al quale Remi Weekes, sceneggiatore e regista, pare volersi immediatamente rifare. La pellicola mette difatti subito in tavola le sue carte, in un brevissimo prologo marcato su tratti africani impressi nella rovente sabbia e sulla pelle d’ebano scarificata, condensando nel giro di qualche istante il dramma socio-culturale di chi dalla propria terra si trova strappato e poi tragicamente riversato nelle acque di un mare pronto a inghiottire un’umanità disperata.
Poi, per chi si salva (sì, ma a quale costo?), parte una lunga trafila di sguardi inquisitori ai quali dover sottostare e subire in un soccombere della bontà solidale sotto la freddezza dello spietato e spesso asettico linguaggio tecnico-burocratico. Certo, c’è anche chi all’interno di questa moltitudine di occhi che guardano, scrutano e giudicano (sarà questo un punto focale di tutto His House) mostra un avvicinamento cauto, in prima istanza disinteressato ma forse sinceramente genuino nel tendere una mano, così com’è il personaggio nel corpo di Matt Smith, Mark, che compare poco ma è perfetto nel rimanere a metà nel grigiore di una middle-class – in questo caso quella anglosassone – appiattita e svilita verso il basso.
Ma torniamo alla “home”, o meglio sarebbe appunto chiamarla “house” per tutta l’ora e mezza di durata del film, cardine centrale sul quale poggia la disperata ricerca di un nuovo senso di appartenenza di chi “laggiù” non ci vuole tornare. Perché la coppia di coniugi Majur, nei lineamenti provati di Rial (l’ottima Wunmi Mosaku) e Bol (Sope Dirisu, che recentemente abbiamo avuto modo di apprezzare anche in Gangs of London), dovrebbe dimostrarsi grata di aver ricevuto tutta per loro una delle abitazioni più grandi tra quelle disponibili (quella middle-class di funzionari del governo terrà a sottolineare più volte “più grande della mia”), seppur fatiscente e da ristrutturare da cima a fondo. A questo punto non rimane che integrarsi tra quegli sguardi lontani e diffidenti, in attesa dell’arrivo della sentenza che vada a riconoscere lo status di cittadini di un nuovo stato.
La forza del lavoro di Remi Weekes è nel mutare forma e adattarsi
Però il percorso di elaborazione di un trauma persistente e profondo come quello della traversata della morte affrontato dai Majur non può essere accantonato così facilmente, per questo inizia ad impregnare le sottili mura marce di una sistemazione che rimane materia aliena e distante, che si popolano di tutti i fantasmi mentali (e non) di un dramma che spacca in due la psiche di un individuo e rende impossibile assegnare un luogo dell’essere a chi si sente perennemente fuori posto. Qui è la bravura di Weekes e il punto di forza di His House, ovvero nel non nascondere nemmeno per un momento la natura fortemente metaforica e di impegno sociale dal quale la sceneggiatura trae i suoi spunti migliori, declinati all’interno di una cornice di genere horror in grado di mutare forma e adattarsi di volta in volta al percorso di presa di coscienza dei suoi due protagonisti.
Se nel primo terzo del film l’impianto orrorifico è giocato sugli strappi di uno shock che si rifà al jumpscare come soluzione principale nello stimolare l’attenzione dello spettatore, la bontà dell’operazione è nella capacità di traslare in corso di narrazione a un differente testo filmico che in maniera procedurale inizia a riconoscere la minaccia e a identificarla a viso aperto. Ciò che non si vuole vedere è sempre lì nascosto nell’oscurità e basta metterlo in risalto strappandolo fuori dai muri e illuminandolo con efficaci giochi di luce e ombra (in grado di regalare un paio di colpi d’occhio davvero notevoli) per andare a fronteggiarlo in un atto di espiazione che integra con successo, e senza troppi orpelli, una vena di folklore e spiritismo africano che si costituisce in prima istanza come terreno di un recupero identitario.
His House è partorito da un tema tristemente attuale e forse eccessivamente abusato a livello di immaginario cinematografico, ma propro in virtù di questo risulta vincente e convincente nel suo sapersi riconfigurare in una cornice differente che dona alla tematica uno spessore a suo modo unico e una nuova chiave di riflessione inaspettata.