Kadaver è l’horror post-apocalittico a sfondo sociale firmato da Jarand Herdal, qui nel suo secondo lungometraggio dopo l’esordio poco felice di Everywhen (2013). Kadaver è il primo film originale Netflix di produzione norvegese e vede nel cast Gitte Witt, Thomas Gullestad e Thorbjørn Harr. Una scommessa apparentemente vincente, ma che mostra un’intrinseca debolezza a causa di uno script che diventa sempre più banale nel procedere della narrazione.
IN KADAVER SCENARI APOCALITTICI E CENE DI GALA
Leo (Gitte Witt) e Jacob (Thomas Gullestad) vivono in una Oslo post-apocalittica, insieme alla figlia Alice (Tuva Olivia Remman). Scopo delle loro vite è quello di sopravvivere in un mondo dove regna una condizione bellica da stato pre-sociale. Un giorno, la famiglia è invitata nella villa del facoltoso Mathias (Thorbjørn Harr) in cui l’atmosfera è quella di una serata di gala con succulenti piatti, servito in un contesto opulento, proprio mentre fuori imperversano fame e morte. I tre, insieme ad altri altri ospiti, si trovano coinvolti in un’inquietante pièce teatrale che confonde la realtà con l’apparenza e rivelando, lentamente, il drammatico segreto su cui poggia il perverso piano di Mathias.
KADAVER NON É CIÓ CHE SEMBRA
Il problema di Kadaver è la confusione che esso genera, mescolando uno stile registico dotato di carattere con una sceneggiatura a dir poco problematica. Nonostante le ottime aspirazioni del film, queste non trovano realizzazione a causa di uno script scadente, tanto che le pellicola si rivela un horror-splatter oltremodo banale, incoerente e privo di alcun guizzo.
Buona la fotografia, evocativa la preminenza scenografica del rosso con gli spazi labirintici e buone le musiche, ma le prove attoriali sono pessime. Tuttavia, è sempre la sceneggiatura che distrugge con cura ed eleganza il valore complessivo di un’opera che lavora bene sulla soglia del perturbante, senza concretizzarne mai gli effetti. La forma non vale la sostanza; il film di Herdal dimostra che anche una buona costruzione scenica non serve a riscattare il significato.
I RIFERIMENTI IMPORTANTI NON BASTANO
Gli elementi evocativi di alcuni cult sono auto-evidenti, dall’immaginario kubrikiano all’horror a sfondo sociale di Noi – Us (2019) di Peele, ma non basta attingere allo sfondo concettuale di grandi opere filmiche per supplire all’incapacità della narrazione di sostenere un gravoso carico che Herdal si è messo sulle spalle.
In Kadaver, in fondo, l’idea c’è (anche buona), ma è profondamente maltrattata da mani forse inesperte. Il film si focalizza sulla necessità di recupero del sistema sociale, delle relazioni e delle sue regole: un’assenza del mondo culturale generata dall’evento catastrofico. Un motivo già sentito, ma che in Kadaver s’intreccia ulteriormente con il tema della maschera, metafora dell’illusione sociale.
Qui prende forma il capovolgimento della figura dell’attore che, paradossalmente, è l’unico a non indossare una maschera, a differenza degli spettatori. Così, si genera una confusione tra realtà e apparenza, tra platea e palcoscenico; un circolo teatrale in cui lo scambio tra pubblico e attore è quasi inconsapevole. In questo, la ripetizione della scena e la ricorrenza del colore rosso sangue che tappezza i corridoio creano una trappola temporale che ha il sapore dell’inferno dantesco.
Herdal, dunque, decide di imbarcarsi in un viaggio troppo lungo e difficile per la sua poca esperienza e per la carenza concettuale. Già lavorare sul valore simbolico della maschera rappresenta una grande sfida, perché significa scavare nel delicato intreccio, a tratti meta-cinematografico, tra realtà e apparenza. Kadaver poteva essere una buona occasione se avesse avuto più sostanza nella scrittura: il film si presenta con interessante dirompenza nelle prime sequenze, per poi abbandonarsi con lentezza e cadere “come corpo morto cade”.