Paranormal è la nuova serie-tv egiziana in sei puntate prodotta da Netflix. Diretta da Amr Salama e Majid Al Ansar, il soggetto è basato sulla serie di racconti di Ahmed Khaled Tawfeq intitolata Ma Waraa Al Tabiaa, traducibile letteralmente in italiano con Cosa C’è Oltre la Natura. L’opera dello scrittore ha avuto un notevole successo, essendo stati pubblicati circa 81 racconti tra il 1993 e il 2014, tutti basati sulla mitologia orrorifica che attinge da un folklore autoctono. Nella serie compare un cast che conta attrici e attori egiziani, pseudo-ignoti al cinema internazionale: Ahmed Amin, Reem Abd El Kader, Samma Ibrahim, Razane Jammal, quest’ultima comparsa in alcune produzioni di più ampio respiro come La Preda Perfetta – A Walk Among the Tombstones (Scott Frank, 2014) e Une Histoire de Fou (Robert Guédiguian, 2015).
Paranormal: nella serie Netflix un professore egiziano e le sue avventure metafisiche
Rafaat Ismail (Ahmed Amin) è un professore di ematologia, caratterialmente insicuro ma di una razionalità solida e incrollabile. La sua esistenza è spenta, priva di stimoli, fino al ritorno della giovane Maggie (Razane Jamal), donna da lui sempre amata ma alla quale non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Alla soglia dei 40 anni e di un matrimonio organizzato che accoglie con passività e riluttanza, la sua vita è destinata a cambiare con l’avvento di fenomeni paranormali e il ritorno dei fantasmi del suo passato (letteralmente). Di fronte a nuove evidenze, la razionalità imperturbabile di Rafaat è finalmente obbligata a piegarsi.
La serie horror egiziana di Netflix tra cliché e tentativi di innovazione
Fin qui il soggetto è più che promettente, ma essenzialmente Paranormal è una serie-tv – sedicente horror – destinata a lasciare un segno per mancanza di originalità e sovrabbondanza di cliché. Per capire quale sia il problema, bisogna partire da cosa effettivamente la serie aspiri a essere. Ultimamente, il colosso dello streaming ha rilasciato alcuni prodotti come His House e Kadaver che, insieme alla filmografia di Peele, sono epifenomeni di quella neo-corrente che sta scavando silenziosamente nella cinematografica horror, conferendogli una base tematica a sfondo sociale. Dall’altro lato, esistono invece regie più raffinate e profonde come quella di Ari Aster che anche tocca il discorso socio-antropologico e le sue manifestazioni simboliche.
Queste tendenze si accostano alla ormai parabola decadente del ciclo di The Conjuring che, nonostante la potenza da horror classico, è stato ormai spodestato perché troppo pleonastico con tutti i suoi spin-off. In ogni caso, l’idea è che non solo la psicoanalisi, ma lo anche studio delle dinamiche socio-antropologiche e del folklore sta diventando il modello da cui attingere per nuove sceneggiature orrorifiche (The Haunting di Flanagan a parte). Paranormal non è assolutamente nulla di tutto questo, aspira e tenta di esserlo, ma ci sono troppi problemi perché possa assurgere a modelli così alti e innovativi.
Paranormal: una serie-tv più ambiziosa che riuscita
Innanzitutto, più che un horror – a dispetto del titolo – è una serie sullo scontro intellettuale fra il dogma e la scienza. Su questo sfondo tematico, si sviluppa una storia in stile Indiana Jones, in cui parlare di jump scare significa offendere anche i film della peggior specie. Quel tema fede-scienza potrebbe anche andare bene se si è Ari Aster o Jordan Peele, in fondo la direzione dell’horror che attinge da riti e credenze popolari – come si diceva – è in forte aumento, ma se questo indirizzo non è ben dosato e ponderato con elementi di originalità si scivola fuori binario, generando una contaminazione tra classico e contemporaneo che – senza l’adeguata esperienza o talento – è difficile saper gestire. Qui non si tratta di essere tradizionalisti o innovatori, ma per reinventare un genere è anche necessario pensare una grammatica nuova che sappia riscriverlo, altrimenti si rischia un aborto intellettuale. Paranormal forse non ha queste grandi pretese, ma la scommessa di Netflix rimane deludente. Tuttavia, nonostante il risultato sia un evidente insuccesso creativo, lo sforzo del colosso streaming è utile a mostrare e incentivare produzioni che dovrebbero portare aria nuova, ma in questo caso troppo conforme a modelli commerciali.
Qui l’altro problema: il contrasto fra il rappresentante e il rappresentato, ossia una compromissione dell’origine etnica del prodotto per mezzo di uno stile inadeguato, culturalmente troppo lontano. Rafaat – da medico-scienziato – vede la sua immagine riplasmarsi in quella di un avventuroso investigatore del paranormale, generando un essere amorfo, con l’aggiunta di una recitazione trascinata e forzata (per non parlare del doppiaggio italiano approssimativo). Le stesse dinamiche relazionali tra i personaggi sono sostanzialmente banali, con sceneggiate casalinghe che ricordano una telenovela spagnola che va in onda nel primo pomeriggio dei giorni feriali. In tutto questo, gli effetti speciali sono meno che low budget e una tecnica mista assolutamente inappropriata che fa rimpiangere quel realismo delle trasposizioni di Piccoli Brividi. Allo stesso modo, la scenografia e la fotografia non hanno grandi aspirazioni, e non leniscono le ferite provocate dalla poca originalità dello script.
Il conflitto del protagonista, vero motore della storia
Probabilmente, l’unica cosa salvabile è il conflitto interno al personaggio principale, reso da una voce fuori campo, nonché stream of consciousness del protagonista. In Rafaat, così, esiste un duplice punto di vista, uno sguardo alternato fra una razionalità deridente e una creduloneria derisa. Questo è dunque l’unico elemento interessante, l’ambivalenza e l’oscillazione del protagonista: un novello San Tommaso, ma quasi privo di spessore a causa di una recitazione non facilmente digeribile, soprattutto nella gestualità obbligata e poco naturale. L’evoluzione di Rafaat – esclusivamente sotto il profilo della sceneggiatura – è l’unica cosa che potrebbe dirsi salva, in una complessità assolutamente da scartare. Un’evoluzione resa dall’affievolirsi di quella voce fuori campo interna al personaggio, che inizia man mano a verbalizzarsi denotando il senso del cambiamento. In fondo, è solo questo déplacement stereotipato che attira: la presenza del professore colto in un contesto paranormale, il barlume di razionalità e sicurezza nell’imponderabilità dell’esistenza.
Il folklore egiziano normalizzato al ribasso
La serie aveva un punto di forza, quello di una sconosciuta mitologia egiziana, se vista nella particolarità delle storie popolari. Su quello sarebbe stato possibile costruire un buon lavoro, anche senza enormi pretese attoriali o grandi effetti speciali. Di questi non ce ne sarebbe stato bisogno, il buon prodotto non lo richiede mai se possiede uno script, una regia e una fotografia solidi. Anche in questo caso, però, il tutto è notevolmente rovinato dall’idea rimpastata e arcinota di storie come la maledizione della mummia (forse inflazionato dalla produzione hollywoodiana). Infatti, ricorrono molte immagini stereotipate dell’horror, nello specifico quella della bambina con lunghi capelli neri, veste bianca e dal viso smunto che ormai ha sostituito l’icona del fantasma con il lenzuolo bianco. In Paranormal, tra ragazzini che fanno strani disegni premonitori e scheletri abbandonati di bambine, pare di vedere un Ringu egiziano, ma di bassa lega.
La serie, così, scivola sempre più lentamente e irrimediabilmente verso le malebolge infernali, dove espiano eternamente le loro colpe i capolavori del cinema trash. Da notare che questa scarsa manifattura si palesa già nel design naïf e fanciullesco del titolo. Ecco, forse Paranormal è un prodotto che può andar bene per preparare i bambini al cinema horror, così qualcuno potrà almeno dire di essersi spaventato guardandola.