The Queen’s Gambit è la nuova mini-serie in sette puntate, distribuita da Netflix il 23 Ottobre in Italia con il titolo La Regina degli Scacchi. Gli ideatori sono Scott Frank e Allan Scott, il primo – qui anche alla regia – è sceneggiatore noto e prolifico, tra alcuni dei suoi lavori si contano: Minority Report (Spielberg, 2002), The Interpreter (Pollack, 2005), Io & Marley (Frankel, 2008); il soggetto è basato sull’omonimo romanzo di Walter Tevis. Protagonista della serie è la stella emergente Anya Taylor-Joy, affiancata da Thomas Brodie-Sangster, Harry Melling, Marielle Heller e Bill Camp.
La Regina degli Scacchi, Anya Taylor-Joy è un’orfana tra talento e riscatto
La giovane orfana Elizabeth Harmon (Anya Taylor-Joy), nel buio di uno scantinato in cui si rifugia dalle inutili lezioni dell’orfanotrofio, scopre un innato talento per gli scacchi grazie al taciturno custode, il Signor Shaibel (Bill Camp). Dalla consapevolezza di essere una geniale scacchista, all’adozione da parte di una famiglia disfunzionale, la scalata verso la celebrità di Elizabeth, seppure irrimediabile, è ostacolata da circoli viziosi il cui superamento rappresenta un obiettivo esistenziale ben più importante della celebrità.
La mini-serie Netflix è a tratti prevedibile eppure funziona magnificamente
Scott Frank regala al pubblico una serie che funziona (e anche molto bene). In anni nei quali la serialità televisiva assiste a una crescente sovrabbondanza di produzioni identiche tra loro, La Regina degli Scacchi a modo suo rappresenta una di quelle rare ventate di aria fresca che il pubblico sa apprezzare. Uno script semplice, una sceneggiatura pulita, piana e limpida e un’attrice protagonista dallo sguardo penetrante e vero: questi elementi costituiscono l’insieme giusto e omogeneo per un prodotto destinato a durare. Seppure sin dall’inizio si abbia già l’impressione di come la storia vada a concludersi, questa apparente banalità cela una soggiacente serie di piccole pulsioni che provengono dal mondo del reale e che non delegittimano la validità del lavoro di Frank. Un’idea di serialità che, in sostanza, serve a costruire una cornice narrativa ordinaria, anziché banale.
La Regina degli Scacchi: la vita oltre il gioco
Quella di Elizabeth non è solo la storia di una campionessa di scacchi, ma la narrazione di un’esistenza complessa che trova nella competizione sana e nel senso di acquisizione della sportività il giusto movente per un riscatto morale, a partire dall’accettazione della sconfitta. L’esistenza di un’orfana – qui elevata a paradigma – è definita da emozioni violente, incontrollabili, di vuoti colmabili solo fagocitando l’avversario, vittoria dopo vittoria, in un momento storico in cui l’idea di una giocatrice donna è assolutamente impensabile.
Un gambetto all’abuso del politically correct
La Regina degli Scacchi, così, fa un bel gambetto (è il caso di dirlo) a tutte quelle produzioni forzatamente o esplicitamente ipernutrite da una politica di genere, perché lavora sul tema con il giusto equilibrio, contestualizzando la condizione femminile senza abusarne il significato e il valore. La storia di Elizabeth e della sua condizione è articolata in un uso sapiente dello script, anche in un gioco di riferimenti e parallelismi politici che assumono il momento storico della guerra fredda e di cui la contesa sulla supremazia scacchistica nello scontro USA-URSS diventa emblema. Qui, forse sta l’unico riferimento un po’ troppo stereotipato: l’idea di un’innovativa e democratica America che porta avanti la donna come segno di una potenza in evoluzione, di contro all’arretratezza dell’URSS.
Un sonoro ipnotico per la serie di Scott Frank
Nel complesso – a parte l’ottimo climax emotivo crescente e i processi di immedesimazione empatica ben strutturati dalla sceneggiatura, resi anche possibili dalla recitazione solida del cast – altro protagonista fondamentale della serie è il sonoro. Il tonfo degli scacchi sulla scacchiera, il loro rumore sordo e i ticchettii che risaltano per contrasto rispetto al silenzio della partita, questi rumori ridondanti amplificano la percezione emotiva tesa e sospesa delle partite a scacchi, generando uno stato pseudo-ipnotico nello spettatore. Altrettanto valore possiedono le musiche scelte da Carlos Rafael Rivera, spesso accompagnate da una fotografia che restituisce lo stato di solitudine della protagonista. Elizabeth si sente sola e in questa condizione sa di dover affrontare il percorso di riscatto – sia per la sua condizione sociale, sia per quella personale.
The Queen’s Gambit, le scale e l’esistenza
Nella sua potenza teatrale, le scalinate che la “regina” percorre (quasi sempre in salita), nel lavoro di Frank diventano il simbolo della resistenza. La fotografia ritaglia ricorsivamente questi momenti, le sequenze propongono la solitudine e la rappresentano, proprio come la splendida inquadratura nella casa adottiva, in cui il salotto che dà sulle scale diviene arco scenico con il suo arlecchino, mentre sullo sfondo si stagliano scenograficamente le scale, con Elizabeth che nella sua radicale e innata forza, le percorre con l’eleganza di una regina. I percorsi di discesa e risalita sono il leitmotiv oggetto della fotografia, segno indelebile del percorso interiore della protagonista: dalla discesa verso il seminterrato dell’orfanotrofio, passando per i sali-scendi dell’intimità domestica (cifra concreta dell’altalenanza esistenziale), fino alle scale che conducono verso gli spazi circolari dei grandi tornei internazionali, dove Anya Taylor-Joy si muove con la signorilità e la leggerezza di una danzatrice classica. Il tutto è condito da sguardi assorti, offerti dalla performance dell’attrice durante la simulazione di partite immaginarie.
La Regina degli Scacchi è una partita vincente per Netflix
Nel vorticoso e terribile trascinamento causato dal vizio, Elizabeth combatte per il suo riscatto, con l’aiuto di chi decide di non abbandonarla. Così, mentre la carriera impenna, la serie offre un finale dal carico emotivo intenso. Questo climax dirompente e in ascesa, con altrettanta maestria, viene ricondotto con lentezza verso il basso, accompagnando dolcemente lo spettatore; e lo fa attraverso quella sceneggiatura non eccessiva, elegante e posata, oltre che con un’ ultima inquadratura che – malinconicamente – ricuce l’esperienza dell’apertura con quella del finale. La Regina degli Scacchi permette allo spettatore finalmente di respirare e, grazie a questa distribuzione, Netflix gioca una delle sue migliori partite sulla scacchiera di una serialità che da tempo sta rischiando una pesante inflazione tematica.