Che Tim Sutton abbia un debole per i supereroi e loro declinazioni borderline ce lo ricorda anche il suo lungometraggio del 2016, Dark Night, in cui raccontava la storia vera di James Holmes, lo studente che ad Aurora uccise 12 persone a colpi di arma da fuoco durante la proiezione di The Dark Knight Rises di Christopher Nolan. Questa volta l’autore statunitense con il suo Funny Face, presentato al Torino Film Festival 2020 nella sezione Le Stanze di Rol, vira nell’immaginario (anti)eroistico attraverso una maschera jokeriana con un ghigno surreale e inquietante – somigliante in realtà ad alcune viste nella saga di La Notte del Giudizio, prodotta dalla Blumhouse di Jason Blum.
Funny Face (2020): il film di Tim Sutton tra gentrificazione e speculazione edilizia
Questa maschera che cade dal cielo, come in una sorta di scherzo del destino, rappresenta l’incipit del film. Saul (Cosmo Jarvis), che la raccoglie e decide di indossarla, vive con i nonni e si porta dentro una rabbia incolmabile. La gentrificazione e la conseguente speculazione edilizia hanno trasformato il quartiere dove è cresciuto in un parcheggio per auto. Quando casualmente incontrerà Zama (Dela Meskienyar) – ragazza musulmana in rotta con la famiglia che le contesta uno stile di vita troppo emancipato – i due, di tacito accordo, inizieranno un girovagare per le strade di Brooklyn senza una vera meta, curiosando in vecchi palazzi, rubando auto e mangiando cibo etnico. Ma in realtà, Saul, un obiettivo ce l’ha: quello di vendicarsi per il sopruso subito, prendendo di mira un costruttore miliardario (Jonny Lee Miller) che nel frattempo è impegnato in un nuovo progetto speculativo e ha bisogno a tutti i costi di trovare del denaro.
La metropoli di Funny Face come una prigione di vetro
Sutton gioca tutte le carte a disposizione avanzando per atmosfere con l’aiuto del bravissimo direttore della fotografia Lucas Gath (che ha lavorato anche nel remake di Suspiria di Luca Guadanigno). Lo fa iniziando a tagliare fuori la metropoli e impressionarla solo attraverso le immagini dei grandi grattacieli e di uno skyline soffocante. La New York di Funny Face più che una città post-moderna vitale e brulicante di colori è una prigione di vetro, cemento e fantasmi. Quando si respira è perché Sutton guarda oltre in conglomerato urbano, ad esempio verso il mare al tramonto o sovrastando Brooklyn da sopra una terrazza. In questa sorta di deserto dentro l’oasi, Saul e Zala hanno in effetti bisogno di respirare: vagano senza punti di riferimento, iniziano a conoscersi e a riconoscersi, scappano senza fuggire da qualcosa che ormai è ovunque. Sono due anime speculari: entrambe oppresse, entrambe in lotta. Saul cova una rabbia repressa per la propria casa trasformata in parcheggio ma anche Zala deve combattere la famiglia bigotta che la vuole non integrata e nascosta nel suo niqab. Eppure tutto rimane sotto pressione senza mai esplodere, come un’incubazione esasperante e senza via di uscita, nel pieno stile languido ed opprimente di Tim Sutton.
Funny Face e l’eco del cinema algido di Nicolas Winding Refn
In mezzo a tutto questo il regista statunitense si concede momenti di puro virtuosismo, come la scena orgiastica a casa dell’imprenditore edile che sembra l’eco di un certo cinema refniano (pensiamo a Neon Demon) oppure con dialoghi tesissimi e ben strutturati, come nel confronto fra lo stesso costruttore e suo padre. A contorno arrivano i suoni del sintetizzatore dell’ex chitarrista degli LCD Soundsystem, Philip Mossman, che crea una tensione palpitante e sotterranea, come un magma musicale che striscia nel sottosuolo newyorchese. Dopotutto che Sutton miri a una messa scena asettica è evidente nel modo con cui si concentra sulle espressioni facciali dei protagonisti, sulle luci al neon e sulle superfici lucide delle auto. Il problema sorge quando questa economia di linguaggio diventa parassitaria, quando gli unici isolati momenti di sviluppo narrativo diventano un’aspettativa a cui non si concede mai una risoluzione concreta. Il rischio di cadere in una semplice decorazione delle immagini diventa palpabile quando ormai, arrivati a fine pellicola, l’insieme di quello che abbiamo visto perde convinzione nella sua totalità e nella sua coesione.
Ma in fondo è questo che vuole essere, o meglio, non vuole essere il film di Sutton. Un Joker mancato o un Travis Bickle non abbastanza sciroccato o ancora un personaggio dei fratelli Safdie con meno risorse a cui fare affidamento. Funny Face sta in mezzo a quella frontiera della disperazione metropolitana e tradisce ogni declinazione nel genere – che sia il revenge movie o il superhero movie – restituendo nella narrazione la mancanza di prospettive e di identità degli stessi due protagonisti del film. La sua più grande ambizione, il suo più grande limite.